Most Beautiful Island

Usa- 2017 – di Ana Asienso – drammatico/thriller – 87′-

Recensione doppia, di Antonio Falcone & Alessandro Giovannini (fonte immagine: ondacinema.it)

Antonio Falcone:

New York, giorni nostri. Volti fra la folla, donne con la loro storia da raccontare, un passato forse non molto felice, un presente da vivere sfruttando le opportunità che la città sembrerebbe offrire,  nell’incognita di un futuro difficile da prospettare. Ecco Luciana (Ana Asienso), giovane spagnola da poco nella Grande Mela, il ricordo assillante e dolente di una figlia morta in circostanze non del tutto chiarite, l’affitto da pagare, i frequenti attacchi di panico che richiederebbero costose medicine, garantite solo da un’opportuna copertura assicurativa al momento non preventivabile, qualche lavoro precario, improvvisata baby sitter o la reclame di un fast food vestita da pollo, insieme all’amica Olga (Natasha Romanova), russa, ex modella. Proprio quest’ultima paventerà a Luciana un’alettante proposta, sostituirla nella partecipazione ad un party esclusivo, un compenso di 2000 dollari per una semplice presenza, nessun contatto fisico, sarà sufficiente presentarsi nel luogo prestabilito vestite con un tubino nero, senza porsi troppe domande nell’assecondare i voleri degli invitati. Per Luciana però, una volta giunta sul posto, un buio scantinato dove vi sono altre donne in attesa, tra le quali la stessa Olga, sarà la scoperta di un inquietante mondo nascosto, brulicante di ambiguità e perversione…

Scritto e diretto dall’attrice Ana Asienso, al suo debutto registico, Most Beautiful Island si rivela alla visione come un film a suo modo sorprendente nel coniugare realismo dal piglio documentaristico (è girato in pellicola 16mm) ed un’inquietante atmosfera thriller, quest’ultima avvertibile tanto nella quotidianità vissuta dalla protagonista, quanto, in crescendo, nella parte relativa alla festa misteriosa cui prenderà parte, facendo leva sul non detto e su di un’atmosfera soffocante, quasi claustrofobica, dove a far da colonna sonora contribuiscono essenzialmente i rumori esterni, propri della vita di ogni giorno (dal brusio della folla nella sequenza iniziale ai rumori del traffico, passando per il suono proveniente da un televisore acceso).  La macchina da presa si rende tutt’una con Luciana, l’individua tra il nugolo di persone che affollano ogni giorno New York e la segue passo dopo passo in ogni sua attività, ponendo così risalto al carattere di una donna tanto determinata a perseguire il proprio sogno, coincidente in buona parte con l’idea di un’onesta sussistenza che le consenta un minimo di autodeterminazione, quanto a disagio nell’adattarsi ad una realtà non sempre propensa a mantenere quanto promette, che nasconde all’interno di un sempre vivido american dream diffidenza e propensione ad approfittarsi dei più deboli, di quanti soffrono disagi economici e psicologici.

Girato assecondando, relativamente alla cadenza narrativa, l’arco temporale di una giornata, Most Beautiful Island, titolo fortemente ironico, svela gradualmente l’orrore celato dietro la facciata di una rituale normalità, il quale verrà fuori una volta che la metropoli avrà smesso il consueto abito da città aperta e condivisibile, così come può levarsi via il nastro adesivo che occulta una tana di immonde blatte (una delle sequenze più metaforiche). La regista si rivela abile nel tenere tesa la corda della suspense in quella che può considerarsi la seconda parte del film, all’interno dello scantinato: è sufficiente un giro della macchina da presa a soffermarsi sui volti e, soprattutto, sugli sguardi delle ragazze, al pari di un grido soffocato proveniente da una stanza chiusa, a far sì che il senso d’inquietudine si renda palpabile, percepibile empaticamente da noi spettatori, lasciandoci infine scossi, agghiacciati, nello scoprire quale gioco sia stato architettato per soddisfare i facoltosi partecipanti, non svelando altro della tachicardica sequenza che vedrà protagoniste Luciana ed Olga.

La prima, infine, uscirà fuori “a riveder le stelle”, forse ormai integrata, ma con più di una disillusione, in un sistema che esibisce la contraddittorietà che gli è propria, ovvero far sì che la più pura visione onirica, apparentemente resa a portata di mano, si trasformi in un sordido incubo ad occhi aperti.  Ben diretto ed interpretato, al netto di qualche influenza derivativa (Cassavetes e Polanski, per stessa ammissione dell’autrice, ma si notano anche echi kubrickiani e loachiani), con una fotografia (Noah Greenberg) che circonda persone ed oggetti di una patina cerea, sorretto da un montaggio “ritmico” (Francisco Bello) nel sostenere l’incedere delle  sequenze, Most Beautiful Island forse avrebbe meritato un finale più incisivo e meno sbrigativo. Siamo comunque di fronte al classico “piccolo grande film”, capace di tradurre metaforicamente sullo schermo, con un linguaggio visivo e contenutistico asciutto ed essenziale, le esperienze autobiografiche della regista, idonee  a rendersi universali nel visualizzare le difficoltà d’integrazione di quanti appaiono stranieri fra eguali, cui si accompagna la crisi economica e morale propria del periodo che stiamo attraversando, dove il prominente progresso materiale non sempre è accompagnato da una concreta e vivibile evoluzione umana.

 

Gran Premio della Giuria al SXSW (South by Southwest) Film Festival 2017

Miglior Film al Sidewalk Film Festival 2017

Menzione Speciale Miglior Opera Prima al London BFI 2017
Selezione Ufficiale Sitges 2017

 Selezione Ufficiale 35º Torino Film Festival 2017

Nominato agli Independent Spirit Awards 2018

Voto: 7

 

Alessandro Giovannini:

Esordio della regista spagnola Ana Asensio, anche sceneggiatrice e interprete del film, Most Beautiful Island affronta il tema dell’immigrazione irregolare in chiave di thriller claustrofobico ambientato in una New York cupa, ostile, ben lontana da quella terra delle opportunità di molta narrazione cinematografica. Il film è concepito come una discesa all’inferno da parte di una giovane donna che, per problemi non troppo specificati, non ha modo di tornare in patria e deve arrabattarsi come può in una grande città straniera senza avere i documenti in regola. Sarebbe ingeneroso e riduttivo etichettarlo come semplice film anti-Trump anche perché, dopo un primo atto di descrizione sociologica in cui la regista non allontana mai dalla protagonista, tratteggiata come una donna dalla psicologia fragile e forse sull’orlo di una crisi di nervi (efficace e sorprendente in tal senso la scena della vasca da bagno), il film vira sempre più nel cinema di genere puro trasformandosi in un thriller da camera in cui tutta l’azione si svolge all’interno dello stesso ambiente, uno spoglio interno sventrato adibito a sede di una losca organizzazione criminale che utilizza giovani immigrate irregolari per un gioco perverso.

Ana Asensio gira in 16 millimetri il suo esordio totale (neanche un corto alle spalle) e l’inesperienza si fa sentire in alcuni difetti piuttosto marcati (i primi piani a fuoco sono più un’eccezione che la regola, il montaggio del secondo atto poteva sacrificare qualcosa in favore di un maggior ritmo) che rovinano in parte l’esperienza di visione, ma la forza espressiva di alcuni momenti, sia per la relativa originalità sia per l’intrigante messa in scena, sopperiscono a tali mancanze. La scelta di scrittura di comprimere l’unità di tempo (una giornata nella vita della protagonista, dal mattino a notte fonda) giova al senso di oppressione che la pellicola vuol trasmettere, e in alcuni momenti la scrittura sembra omaggiare alcuni maestri della suspence, primo fra tutti Roman Polanski con il suo cinema della minaccia in cui le persone più vicine sono spesso le più pericolose. La regista cita anche modelli di ispirazione quali John Cassavetes o i fratelli Dardenne, la cui influenza si nota specialmente nel modo in cui la camera a mano spia la protagonista, a metà tra il documentaristico e il voyeristico.

Retto da un pugno di scene cardine (la già citata vasca da bagno; la scena madre in una stanza degli orrori che omaggia la black lodge di David Lynch con i suoi drappi rossi; il finale anticlimatico in cui la protagonista pare farsi scivolar via come un nonnulla tutti gli avvenimenti vissuti, amara ironia sull’abitudine all’oppressione esperita da chi vive quotidianamente in condizioni di clandestinità ed è quindi sottoposto ad ogni genere di sopruso), Most Beautiful Island è un esordio non privo difetti ma sicuramente carico di personalità, che fa ben sperare nel prosieguo della carriera da regista della quarantenne attrice spagnola.

Voto: 7

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