“Nessun nome nei titoli di coda”: intervista al regista Simone Amendola e all’attore Antonio Spoletini

Italia-2019-  di Simone Amendola- Docufilm, 83′. Articolo ed interviste di Antonio Falcone

Teatro 5, Cinecittà

E’ stato presentato ieri, mercoledì 23 ottobre, alla XIV Festa del Cinema di Roma, per la  sezione Riflessi, Nessun nome nei titoli di coda, docufilm diretto da Simone Amendola con protagonista Antonio Spoletini, un sentito omaggio ai tanti figuranti, ai generici, a tutte quelle maestranze il cui ruolo è fondamentale per la realizzazione di un film, pur restando spesso nell’ombra. Un’opera suggestiva, che privilegia una narrazione in divenire, lasciando affiorare gradualmente ricordi e sensazioni del passato che vanno poi a fluire nel presente;  le sensazioni suscitate dalla visione di Nessun nome nei titoli di coda sono state tante ed allora si è deciso di condividerle con Simone ed Antonio, dando vita alle interviste che potete leggere qui di seguito.

Simone Amendola

Simone, come nasce l’idea del docufilm Nessun nome nei titoli di coda e cosa rappresenta per te il cinema?

 “Potrei dire che tutti i protagonisti delle mie storie, che siano narrate per immagini o scritte, sono in fondo comparse. Uno zoom sulla massa indistinta, a tirare fuori una storia. Nei miei film come nei testi racconto sempre di marginalità, di spazi conquistati a denti stretti nella vita. Credo sia la prospettiva con cui io stesso guardo il mondo. In questo solco nasce Nessun nome nei titoli di coda. Già nel 2004 avevo girato uno dei miei primi lavori tra le comparse di Ticket di Ken Loach (al tempo Loach le aveva scelte personalmente a Vigne Nuove, estrema periferia romana, dove era presidente onorario del comitato di quartiere) e quando Cristiano Sebastianelli, il produttore, mi ha detto che avremmo avuto la possibilità di girare tra i viali di Cinecittà, ho pensato subito che potevo mettere il cuore in questo documentario. La mia unica preoccupazione è stata ‘devo però raccontare i chiaroscuri di una storia, fare un film e non un reportage’. Per me è questo il cinema (ma anche tutta l’arte), la possibilità di dire ancora qualcosa sugli uomini. Tirare fuori un significato dalle esistenze”.

 Nel visionare Nessun nome nei titoli di coda mi ha piacevolmente colpito la sua fluidità, la scorrevolezza narrativa, lasciandomi l’impressione che tu abbia privilegiato un racconto in divenire, facendo sì che affiorassero gradualmente ricordi, sensazioni passate, che vanno poi ad insinuarsi nel presente, creando quindi una sorta di flusso continuo nel ravvivare l’idea di un cinema come sogno condiviso, non so sei d’accordo…

Antonio Spoletini ed Amendola

 “Beh, sono lusingato dal tuo sguardo. Mi fa piacere se sia passato una sorta di ‘viaggio impressionista’, che credo sia la cosa più difficile da fare. Forse è una conquista del tempo, perché la mia tendenza è stata sempre quella all’espressività, al contrappunto marcato. Essendo un film-documentario è una narrazione in minima parte dettata dalla materia stessa (dal girato, dal repertorio…), ma è stato anche un tipo specifico di lavoro proseguito al montaggio come naturale evoluzione dell’assetto con cui il film si è fatto: un clima molto morbido, a partire da Antonio, il protagonista, che si è lasciato andare piano piano alle mie suggestioni. E non è affatto scontato per una persona di 80 anni – con un’identità così definita – lasciar trasparire lo scrigno delle cose più intime. Sicuramente, essendo un film senza interviste, quello a cui tenevo era avere una linea narrativa verticale che permettesse di non far perdere coesione al racconto.  Un documentario è una strana creatura, che forse i documentaristi puri sanno dominare… Mentre io ragiono drammaturgicamente, e affronto la costruzione come se facessi un film di finzione. Se poi da questo racconto riesce ad emergere anche ‘l’idea di un cinema come sogno condiviso’ beh allora il merito è solo del film…”

Cinecittà, i suoi studi, le produzioni fastose della “Hollywood sul Tevere”, il cinema onirico di Fellini, fra ricordo e realtà, le produzioni attuali … Quanto ritieni rilevante il legame tra Roma, la sua gente e il cinema? E, soprattutto, questa relazione è viva ancora oggi?

 “Per approcciarmi al racconto, su suggerimento di Floriana (che è stata l’aiuto regia ed è la mia compagna), mi sono andato a rileggere quello che Gian Piero Brunetta mette a fuoco nel suo Storia del cinema italiano, e cioè il rapporto unico tra Roma, il suo proletariato e la settima arte. Con il neorealismo si sono creati i presupposti per un ménage a trois ancora unico al mondo. Davanti e dietro la macchina da presa sono diventati protagonisti i figli di Trastevere, dei rioni e delle borgate. Gli intellettuali volevano raccontare il popolo e solo il popolo poteva mediare per cercare i volti che davano identità ai luoghi e alle storie. E così hanno iniziato a mangiare pane e celluloide persone che se non avessero fatto il cinema magari avrebbero fatto proprio tutt’altro. Gente che avrebbe messo in piedi una banda vera di Soliti ignoti o di vendite-truffa di Fontana di Trevi. Poi dalla realtà si è passati ai grandi set americani o all’immaginazione di Fellini, ma ormai quelle figure così singolari erano un ingranaggio imprescindibile della macchina cinema romana (e non solo). Oggi non è più quella Roma e non è più quel cinema, ma Cinecittà sta riprendendo quota anche in chiave vintage (come i vinili e i libri cartacei…) Da Clooney a Meireilles, i registi vengono ancora a provare il brivido di dire ‘motore’ dove hanno detto ‘motore’ i grandi che hanno fatto la Storia… Ma comunque non è più Roma e non è più cinema in generale. E lo dico senza nostalgia, perché non sono cose che ho vissuto. Quando avevo diciottanni c’era già Berlusconi che aveva fatto l’Italia con le tv commerciali e si approcciava ad entrare in politica…Oggi a me comunque continua ad interessare il cinema più delle serie, mi piace ancora farmi cambiare la vita”.

 Nessun nome nei titoli di coda rappresenta un sentito omaggio ai tanti figuranti, ai generici (emblematico l’inserimento tra i materiali d’archivio delle riprese Rai relative al funerale di Fellini), a tutte quelle maestranze il cui ruolo è fondamentale per la realizzazione di un film, pur restando spesso nell’ombra. Penso alle tante pellicole di genere degli anni ’60, dove si sopperiva ai bassi budget con una creativa artigianalità. In riferimento a ciò, credi che le odierne tecnologie possano sostituire quella “perfetta imperfezione” (Daniele Ciprì) di un cinema volto più che a nascondere i suoi trucchi, a palesarli in modo evidente, in un continuo gioco di affabulazione con gli spettatori?

 “Non saprei. Se la tecnologia può creare le gambe finte di Marion Cotillard in Un sapore di ruggine e ossa, allora viva la tecnologia! Se serve solo a moltiplicare le masse e a fare i polpettoni americani allora abbasso la tecnologia. Cioè io non voglio sapere come abbia fatto Cuaron a girare certe scene di Gravity, ma sono contento che l’abbia fatto. E credo che là dietro ci sia inventiva, ci siano persone in grado di far fare alle macchine ciò che è stato umanamente immaginato. In fondo è stato un italiano a creare quel pupazzo ExtraTerrestre che negli anni ’80 ha fatto commuovere milioni di spettatori in tutto il mondo. Il cinema artigianale certo mi piace, mi emozionano tutti i film di Leone ad esempio, e mi piace pensare alla sapienza e al calore con cui venivano fatti. Quella dell’apporto delle maestranze alla grandezza del cinema è una narrazione in parte molto vera, in parte nutrita proprio da un tipico atteggiamento cinematografaro romano: una volta, su un set, un macchinista descriveva i movimenti di macchina fatti con Storaro sui film di Bertolucci, come se li avesse inventati lui!”

 Nel salutarci, ringraziandoti per la disponibilità, la classica domanda finale, hai già in mente un nuovo progetto?

 “Quest’anno ho vinto un bando di sviluppo di Centro Sperimentale e SIAE con il soggetto di un film di finzione. Un noir. A me piace costruire storie-puzzle con i pezzi da rimettere insieme per capirne il senso, per provare a raccontare qualcosa di più complesso. Qualcuno diceva che il giallo ‘è un buon modo per dire delle cose’. Ora stiamo scrivendo la sceneggiatura…”

Antonio Spoletini

Sig. Spoletini, come lei stesso afferma in una scena del docufilm Nessun nome nei titoli di coda, la sua nascita risale ad un mese prima a quella di Cinecittà: l’interesse, l’amore per il cinema in che modo si è manifestato e come è mutato, se è mutato, nel corso degli anni?

 “Ricordo ancora molto bene il mio primo film, mi sembra ieri ma era il 1948, (“ammazza come vola il tempo”). Era Il Barone Carlo Mazza di Guido Brignone con Nino Taranto e Silvana Pampanini. Eravamo a Ponte Milvio e mio fratello Pippo mi fece fare il ruolo di un piccolo indiano che sventolava con un grosso ventaglio, che era più grande di me, che faticaccia quel giorno!. Fui subito rapito da quel mondo, dalle voci, i rumori, le luci, dal silenzio di quando si iniziava a girare, dalla troupe che lavorava sul set, tutto quel movimento e quel darsi da fare. Mi entrò nel sangue. Dal 1948 ad oggi il mio rapporto con il cinema e per il cinema è mutato, come è naturale che sia, ma la passione è rimasta la stessa, anzi forse è divenuto un legame più forte. E’ mutato perché sono cambiato principalmente io, un conto è vivere il cinema tra i 20 e 30 anni con la spensieratezza di quell’età, un conto a 40 anni quando si ha una famiglia e si devono pagare bollette e mutuo, e un conto a 80 anni! Ma la passione che mi spinge a lavorare ogni giorno è rimasta la stessa. Una passione che spero di aver trasmesso alle mie figlie che oggi lavorano con me, Barbara e Romina”.

Attualmente gestisce un’impresa di casting, ci tiene a definire i tanti figuranti che si presentano in occasione della preparazione di un film “i miei attori, le mie attrici”: nota qualche differenza, negli atteggiamenti, negli sguardi, nel modo di presentarsi, in coloro che si approcciano oggi al mondo del cinema rispetto a quanti vi si accostavano in passato?

Spoletini e Marcello Fonte

 “Oggi, come tanti anni fa, fare la comparsa, significa principalmente fare ‘la giornata’, guadagnare quanto serve per vivere. Una volta arrivavano a Cinecittà in tram (una storia che Federico ha immortalato nel film Intervista), oggi arrivano in motorino e qualcuno con quelle macchinine elettriche. E’ cambiato certo il senso. Una volta magari il grande sogno era nel casting raccontato nel capolavoro di Visconti Bellissima, di cui (in commedia) se ne sente ancora l’eco trent’anni dopo in Troppo Forte di Verdone. Oggi, realisticamente, è più quello in stile Grande Fratello che si vede benissimo in Reality di Garrone. A me quello che oggi colpisce è la discrezione e l’impegno, ad esempio, degli immigrati. Fare la figurazione per qualcuno è ancora un lavoro di serie A”.

 La sua è una carriera lunga, certamente ricca di soddisfazioni, aneddoti, episodi magari inconsueti avvenuti sui vari set. Fra i tanti registi con cui ha lavorato, di chi conserva un ricordo particolare? Vi è qualche film al quale ha preso parte cui è particolarmente legato?

 “Ho tanti ricordi e tanti aneddoti con tutti. Un giorno mi piacerebbe raccontarli in un libro. Nella mia lunga carriera ho avuto la fortuna e il piacere di lavorare con grandi registi italiani, tra cui Monicelli, Visconti, Pasolini, Avati, Magni, Zeffirelli, Scola, Comencini, Benigni, Troisi… e con molti grandi maestri internazionali: John Houston, Dassin, Stanley Kramer, Polanski, Scorsese, Mel Gibson, Wes Anderson e (recentemente) Terence Malick, ma il regista con cui mi sento particolarmente resta ‘Federico’. Nel film Nessun nome nei titoli di coda questa cosa viene raccontata … il film a cui sono legato, per motivi molto personali, è Roma proprio di Fellini”.

Ultima domanda, ringraziandola della disponibilità, che si collega in parte a quanto ho chiesto anche al regista Simone Amendola: ritiene che l’originaria magia del cinema, resa anche da una partecipazione condivisa all’interno di una sala cinematografica, sia da considerarsi semplice “memoria storica” o possa ancora, per così dire, essere recuperata?

“Secondo me andare al “cinema” per vedere un film sarà un passatempo che durerà ancora per molti anni. Anche se molti giovani preferiscono Netflix, (l’ho detto bene?). Vedere un film al cinema è ancora magico e unico, il profumo della sala, il rullo che parte, le luci che si abbassano. Andarci con mia moglie Vera è ancora una nostra bella routine. Vedo spesso i miei nipoti vedere filmati e film sul telefonino e gli chiedo sempre ma come fai a vederlo lì dentro … è così piccolo…Mi piacerebbe che un giorno possano vedere come era fico il nonno ancora su un grande schermo! Come disse Federico quel giorno: Antò, oggi devi esse più fico di Marlon Brando.”

 

5 risposte a "“Nessun nome nei titoli di coda”: intervista al regista Simone Amendola e all’attore Antonio Spoletini"

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  1. L’ha ripubblicato su Sunset Boulevarde ha commentato:

    La mia intervista su “Lumiere e i suoi fratelli” a Simone Amendola ed Antonio Spoletini, rispettivamente regista ed attore del bel docufilm “Nessun nome nei titoli di coda”.

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