La Talpa

locandina-85

Tinker Tailor Soldier Spy – Francia/Regno Unito/Stati Uniti/Germania 2011 – di Tomas Alfredson

Drammatico/Mistery/Thriller – 122′

Scritto da Fulvia Massimi (fonte immagine: mymovies.it)

1973. Costretto ad un pre-pensionamento forzato dopo il licenziamento del suo capo, l’agente dell’MI6 George Smiley (Gary Oldman) viene richiamato in servizio per svelare l’identità della talpa che si nasconde ai vertici del Circus. La ricerca della verità porterà Smiley a rimestare nelle acque torbide di un passato scomodo, minando le fondamenta della sua fiducia verso i compagni di una vita.

I seguaci della fedeltà letteraria non lo ameranno e, forse, non lo faranno neppure gli estimatori di John Le Carré. L’adattamento cinematografico de La Talpa (l’intraducibile titolo originale, Tinker Tailor, Soldier, Spy deriva da una popolare filastrocca inglese), firmato dallo svedese Tomas Alfredson, non brilla infatti per correttezza “filologica”  ma ci vorrebbero ben altre motivazioni per negare il talento del regista di Lasciami Entrare.

Le aspettative generate da un esordio che sfiorava il capolavoro si complicano di fronte all’eredità lasciata dal romanzo di Le Carré – ritenuto il più completo e puntuale resoconto sull’attività dei servizi segreti britannici durante la Guerra Fredda – e dalla mini-serie prodotta da BBC e diretta da John Irvin nel 1979. Candidato al Leone d’oro alla 68esima Mostra del Cinema di Venezia, Alfredson non sembra lasciarsi intimidire dal peso delle responsabilità e confeziona un thriller che, a dispetto delle critiche “puriste”, è in grado di rendere onore con estrema eleganza alla sua matrice letteraria.

Dalla Scandinavia con furore, Tomas Alfredson come Nicolas Winding Refn si inserisce in quella schiera di “registi venuti dal freddo” che non solo non abbandonano il proprio stile a contatto con il cinema anglofono ma, al contrario, traggono dal confronto con esso le ragioni della sua esaltazione. Attratto dalle potenzialità del dettaglio e da un minimalismo formale che sembra tradurre l’essenza stessa del fare cinema, il regista svedese affronta con estrema confidenza la sua prima trasferta fuori casa, alle prese con un incombente fardello narrativo e con un cast tutt’altro che esordiente.

 Attorno alla tavola rotonda del Circus non siedono soltanto le pedine di un gioco al massacro (psicologico) gravido di ombre ma anche, nascosti dietro pseudonimi da scioglilingua infantile (lo “Stagnino”, il “Sarto” e il “Soldato” del titolo inglese), alcuni dei migliori interpreti della moderna cinematografia britannica, di cui il freschissimo premio Oscar Colin Firth è solo una delle punte di diamante. Meno conformi all’immaginario romanzesco di Le Carré – se confrontati con l’immenso John Hurt (performance breve ma intensa, la sua, nel ruolo di Controllo) – Mark Strong nei panni di Jim Prideaux e Tom Hardy in quelli di Ricki Tarr tengono testa, così come i loro comprimari (Benedict Cumberbatch, Simon McBurney, Stephen Graham, l’elenco è sterminato), al vero leader drammatico e drammaturgico della scena.

 Ben lungi dall’incarnare con didascalica precisione il personaggio “piccolo, rotondetto, di mezza età, corto di gambe e tutt’altro che agile” descritto da Le Carré, il poliedrico Gary Oldman – più frequentemente attratto da ruoli da antagonista borderline – si piega con facilità alla grigia medietas dell’antieroico George Smiley. Ispirandosi alla gestualità dello stesso scrittore britannico – di cui Smiley costituisce una sorta di alter ego (al punto da comparire in cinque romanzi dell’autore, tra cui la cosiddetta “Trilogia di Karla”) – Oldman conserva del personaggio la fragilità sentimentale ma, al tempo stesso, vi attribuisce un senso di consapevole autorità destinato ad ottenere conferme nel fotogramma conclusivo del film.

Nel dialogo-soliloquio con un interlocutore fantasma, Smiley condensa la visione – miope per fisiologia ma non certo per intelletto – di un mondo spezzato dall’incertezza storica e da una “finta” Guerra (se confrontata a quella che l’ha partorita) i cui confini restano ingenuamente tagliati con l’accetta. Ed è a una nemesi assente, senza volto e senza corpo (anche cinematografico), che egli rivolge un’interpretazione dello status quo che suona come un tradimento ideologico: «Non siamo così diversi io e te, entrambi abbiamo passato la vita a cercare le debolezze nel sistema dell’altro. Non credi sia il momento di ammettere che c’è qualcosa di buono sia nel tuo lato che nel mio?»

Se dunque l’eccezionalità del romanzo di Le Carré – e della sua produzione tout court – è da ricercarsi nella complessità esaustiva del suo contenuto, non si può biasimare Alfredson per aver tentato, con successo, di sbrogliare la matassa di informazioni e riferimenti socio-culturali in esso racchiusa. Sarà piuttosto alla sceneggiatura di Bridget O’Connor e Peter Straughan che bisognerà guardare, per rintracciare i motivi di una rilettura più agile e, forse, banalizzata, dell’originale letterario. Cambi di scenario ed eccessi di sentimentalismo (il flashback di Ricki Tarr, l’assassinio della talpa) seguono la necessità cinematografica di snellire l’intrico di una trama aggrovigliata, resa ancor più ostica dalla dislocazione temporale degli eventi che tanto lo script che il montaggio di Dino Jonsäter cercano di recuperare (con qualche fatica).

La regia di Alfredson emerge però limpida e sicura di sé: affatto disorientata dalle zone d’ombra colte dalla fotografia di Hoyte Van Hoytema (alla sua seconda, proficua, collaborazione con il regista) si muove con consapevolezza tra i cunicoli machiavellici delle macchinazioni politiche, delle menzogne e delle mezze verità, confidando nella sola integrità del suo protagonista. Una macchina da presa che non si esime dall’esplicitare, con discrezione e naturalezza, la propria esistenza in scena, scivola attraverso i corridoi di un cinema che al pregio della sintesi unisce una ricchezza espressiva in grado di ovviare ai vuoti del non detto.

Una lezione importante, quella di Alfredson, il cui sguardo acuto e mai dispersivo sa focalizzarsi sulle uniche informazioni che valga davvero la pena fornire. Se, dunque, il diavolo è nei dettagli, lo è anche l’orrore, che in Lasciami Entrare si dispiegava con la forza silenziosa dell’essenzialità e che ne La Talpa si trasforma piuttosto in una violenza trattenuta, una tensione muta, che non si stempera nemmeno nella stampa floreale di un’innocua carta da parati. E a prescindere da qualsiasi concessione narrativa, l’opera seconda di Alfredson non manca di alcun rispetto all’originale di Le Carré, dal momento che la performance di Oldman e la perfetta ricostruzione d’epoca (merito anche della scenografa Maria Djurkovic e delle musiche dell’almodovariano Alberto Iglesias) ne rendono possibile una reinterpretazione moderna ma non per questo disonesta. E, non è da escludere, aperta ad una continuazione.

Voto: 7

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