
Albert Nobbs – Regno Unito/Irlanda/Francia/Stati Uniti 2011 – di Rodrigo Garcia
Drammatico/Romantico – 113′
Scritto da Fulvia Massimi (fonte immagine: mymovies.it)
Al Morrison’s Hotel di Dublino lavora Albert Nobbs (Glenn Close), mag- giordomo impeccabile con un grande sogno – aprire un negozio di proprietà – e due segreti: uno nascosto sotto il pavimento e l’altro sotto ai vestiti. Ad essergli fatale, però, non sarà una vita fatta di menzogne ma il desiderio di riscattarsi socialmente, chiedendo in sposa la cameriera Helen Dawes (Mia Wasikowska) e rivaleggiando con il fattorino Joe Mackins Aaron Johnson).
L’abito non farà il monaco, ma nel caso di Albert Nobbs fa certamente l’uomo. Basandosi sulla novella omonima di George Moore, il colombiano Rodrigo Garcìa – quattro lungometraggi all’attivo e una lunga militanza televisiva (con Six Feet Under e In Treatment) – ne porta maldestramente sul grande schermo le riflessioni butleriane, ricorrendo all’eccezionale trasformismo di Glenn Close per dar loro corpo.
I costumi di Pierre-Yves Gayraud (ed è sempre ciò che sta sotto di essi a fare la differenza), così come il make-up da Oscar del trio Martial Corne– ville, Lynn Johnson e Matthew W. Mungle, sono i principali responsabili di una metamorfosi che , seppur parzialmente debilitante a livello recitativo, consente alla Close di ottenere la sua sesta nomination in trent’anni e, soprattutto, riscatta le sorti di una pellicola altrimenti priva di spessore espressivo.
Spalleggiata da una sceneggiatura eccessivamente lineare e per nulla esau- stiva, scritta a sei mani da John Banville, Gabriella Prekop e dalla stessa Close, anche la regia di Garcìa – che pure si è fatto le ossa (e ha dato i natali) a due dei migliori serial mai prodotti da HBO – si dimostra sorprendentemente piatta, a tratti dilettantesca, rendendo assai arduo il naturale processo empatico dello spettatore verso il protagonista.
Il timido, pacato Albert Nobbs – che sceglie di indossare il costume ma- schile per sottrarsi agli svantaggi del proprio sesso nell’Irlanda del dician- novesimo secolo – è una figura con la quale non sarebbe difficile solidariz- zare, se solo la forza dei suoi desideri non fosse frustrata da uno script che ne rende fumosi i propositi, impedendo al personaggio di ottenere quel cambiamento che costituisce, di fatto, l’esigenza drammatica portante di ogni ossatura filmica ben congegnata.
Davanti allo specchio o in soliloqui spezzati Albert Nobbs prende forma come identità scissa, corrosa da dubbi che non riescono a trovare spiega- zione e da un passato risolto in una confessione altrettanto incompleta. Neppure l’incontro con un proprio simile (il pittore Hubert Page, magi- stralmente interpretato dalla candidata all’Oscar Janet McTeer, unico personaggio veramente vibrante del film) serve a chiarire ciò che è comunque destinato a rimanere taciuto.
La ricerca spasmodica di una normalità, anche se travestita e costantemen- te in allerta, s’infrange contro il muro dei rifiuti e dell’umana meschineria, in una società che spezza ogni velleità con la legge secca e crudele del più forte. Chi conduce un’esistenza miserabile è condannato, giacché l’occasio- ne di elevarsi non gli viene fornita e, anche quando potrebbe sfiorarla, un destino peggiore sopraggiunge, ponendo fine ad ogni ambizione.
La questione sociale, più ancora di quella sessuale, emerge dalle trame sfi- brate del film di Garcìa, definendo la figura di Albert Nobbs al di là della sua (in)consapevolezza di gender. Dietro la morsa soffocante dei corsetti e di un corpo che non viene mai mostrato nella sua carnalità, se non in un istante di fugace e frenetica disattenzione, Nobbs resta comunque un uomo. E se il sesso biologico è una costrizione inevitabile (almeno per l’epoca), il genere rimane invece saldamente legato all’agire, alla performatività di un ruolo che diventa parte integrante della definizione dell’individuo.
La vestizione “al femminile” è quindi fallimentare e la corsa in riva al mare, lontana dall’essere liberatoria, si conclude infine con una rovinosa caduta: la fluidità di genere s’interrompe di schianto, rivelando tutta la sua ineffi- cacia, e ritornare al ruolo sociale auto-imposto appare la sola opportunità possibile per imprimere una svolta alla propria vita. Eppure non è suffi- ciente: l’ingiustizia fagocita gli intenti e sforzarsi di non essere se stessi per resistere alla furia delle onde (l’ideale verghiano dell’ostrica trova qui una sua moderna applicazione) non basta più.
Il finale, che si vorrebbe lieto, ha allora lo scopo di riparare a un torto, of- frendo allo spettatore la possibilità di vedere infine costituito un nucleo fa- miliare, per quanto atipico, insufflato di calore umano, nel tentativo di can- cellare la freddezza di un mondo in cui la bontà non viene ripagata e l’arro- ganza, la violenza, sono le uniche monete di valore (ben lungi dall’essere nascoste sotto le assi del pavimento).
Ed è anche a causa della fotografia di Michael McDonough che quella stessa freddezza traspare e infine permea l’intera pellicola di Garcìa, do- minata da personaggi squallidi (piccolo ruolo per un imbolsito Jonathan Rhys Meyers) ma ingiustamente trionfanti e da un generale senso di sgradevole incompiutezza, che a una trama narrativa debole e prevedibile associa uno sguardo superficiale, senza incisività, cui neppure un cast di livello (oltre a Close e McTeer anche Mia Wasikowka in un ruolo non particolarmente felice) è in grado di riparare davvero.
Voto: 6
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