
Bronson – Regno Unito/Isole Cayman/Danimarca/Stati Uniti 2008 – di Nicolas Winding Refn
Azione/Biografico/Crime – 92′
Scritto da Fulvia Massimi (fonte immagine: mymovies.it)
Diciannovenne introverso e incazzato, Michael Peterson cerca la notorietà rapinando un ufficio postale ma finisce in carcere, dove l’occasione di diventare famoso (con lo pseudonimo di “Charlie Bronson”) si fa ancora più ghiotta, in un crescendo di violenza e follia lungo trentaquattro anni.
Forse persuasi dal successo ottenuto a Cannes 2011 da Nicolas Winding Refn – Palma d’oro per la miglior regia grazie all’atteso Drive – i distribu- tori italiani si decidono a far arrivare anche nelle nostre sale (a due anni dall’uscita britannica) il cult carcerario realizzato dal regista danese nell’in- tervallo tra il capitolo conclusivo della trilogia Pusher e Valhalla Rising.
Ispirato alla vera storia del “prigioniero più pericoloso del Regno Unito” (in carcere dal ’74 e per trent’anni in completo isolamento), Bronson si inserisce a pieno titolo nel filone britannico del biopic atipico, costruito per frammenti pesantemente romanzati e incentrato su una figura complessa (e complessata) ai limiti del surreale.
Apprezzato in RocknRolla di Guy Ritchie e più recentemente nel capo- lavoro onirico di Christopher Nolan Inception, Tom Hardy offre con Bronson una performance sorprendente, fondata su una capacità di mi- mesi interpretativa che nulla ha da invidiare a quella del connazionale pre- mio Oscar Christian Bale. Ingrassato, rasato, nascosto dietro gli stravaganti baffi e i tic psicotici di Bronson (con cui l’attore inglese ha lavorato a stret- to contatto), Hardy si trasfigura totalmente, assumendo la natura animale- sca, l’istrionismo e la profonda solitudine del suo personaggio come fosse- ro le proprie.
Sovvertendo le regole del genere biografico tradizionale, Refn (cui norme e convenzioni sembrano andare piuttosto strette) gioca con testi e paratesticinematografici (ma non solo), procedendo per sottrazione ellittica e rare- fazione dialogica e trovando nella recitazione “slapstick” di Hardy il veicolo per trasformare la propria opera in un film (quasi) muto.
L’interesse predominante per l’esplorazione degli aspetti visivi spinge il ci- neasta danese verso la decostruzione della linearità narrativa (attraverso una sceneggiatura dalla struttura non convenzionale, scritta a quattro mani con Brock Norman Brock) e l’intento deformante della messa in scena, improntata ad un grottesco iperrealismo, si esalta negli spazi claustrofobici dell’istituto di detenzione (penale e mentale) come nello squallore della vita piccolo-borghese di provincia, sui ring clandestini come nello spazio santificato (dall’ultimo fotogramma) della cella.
Sul tema del doppio la pellicola di Refn – riuscito pastiche stilistico – si struttura tanto a livello psicologico che drammaturgico: la follia schizofre- nica di Charlie e le sue velleità artistiche trovano un corrispettivo nello sdoppiamento dell’impianto “narrativo”, che alla semplice voce-over del protagonista preferisce l’allestimento di un grottesco (avan)spettacolo tea- trale (in cui Hardy, mimo inquietante e sessualmente bifronte, dà il meglio di sé) e l’esplicita interpellazione del pubblico, diegetico ed extra-diegetico.
Delle suggestioni kubrickiane che hanno indotto la critica al rischioso pa- ragone con Arancia Meccanica, Bronson conserva certamente l’innova- zione formale, il gusto per l’anomalia e la commistione postmoderna degli stili nonché l’accostamento tra violenza gratuita (esplicitata nei suoi detta- gli più raccapriccianti) e musica classica (da antologia la sequenza finale nell’atelier d’arte), riletto in un’ottica contrastiva che non ha, però, nulla a che vedere con gli intenti paradossalmente rieducativi del romanzo di Bur- gess.
Sebbene entrambi frutto di una ribellione sociale più o meno consapevole, inscritta nel clima sovversivo (a livello storico quanto cinematografico) dei Seventies (Kubrick per ovvia collocazione cronologica e Refn per ricostru- zione filmica), Alex DeLarge e Charlie Bronson non partecipano della stes- sa forma di follia: la normalizzazione indotta e il pensiero critico maturato dal “drugo” nel suo contatto con la riabilitazione carceraria non trovanocorrispettivi nella brutalità cieca di Bronson, showman della violenza alla ricerca di una realizzazione mediatica impossibile oltre le sbarre.
Lighting cameraman per l’ultimo Kubrick, il direttore della fotografia Larry Smith lavora di saturazione cromatica e sporcatura dell’immagine, nella direzione di un uso straniante ed espressionista della luce, vicino più al ruvido (sur)realismo di Gangster n°1 di McGuigan (pellicola di cui Bronson condivide tanto l’etica che l’estetica) che non alle atmosfere pop e allucinate di Arancia Meccanica.
Nella scelta dei brani per la colonna sonora permane l’intenzione (anch’es- sa kubrickiana) di indirizzare la forma filmica verso valori visivo-sonori piuttosto che narrativi, imprimendo alla messa in scena un andamento rit- mico-musicale attraverso il montaggio (di Mat Newman), attivo anche in senso “drammatico”. La sintassi irregolare, infatti, confonde cronologie ed eventi, destrutturando la progressione biografica e riducendo il racconto ad un ruvido minimalismo, volto ad indagare le motivazioni psicologiche del personaggio piuttosto che la fenomenologia dei suoi comportamenti.
Il carattere eversivo del cinema di Refn ha così modo di dispiegarsi attra- verso il concorso di coefficienti tecnico-artistici anti-convenzionali, elevan- do un’estetica della deformazione a esempio di fascinazione filmica. Prati- camente sconosciuto in Italia se non nei circuiti web per estimatori di ge- nere, Bronson potrebbe trarre giovamento dal prossimo passaggio in sala (nonostante la prevedibile penalizzazione “linguistica”) ma se la congiun- tura distributiva non dovesse rivelarsi favorevole rimarrebbe in ogni caso titolo irrinunciabile per cinefili ed esploratori di nuovi orizzonti visivi.
Voto: 8
Rispondi