
Hugo – Regno Unito/Stati Uniti/Francia 2011 – di Martin Scorsese
Drammatico/Family/Fantasy – 126′
Scritto da Fulvia Massimi (fonte immagine: mymovies.it)
1931. Hugo Cabret (Asa Butterfield) è un orfano che vive di espedienti nella stazione ferroviaria di Parigi, regolando orologi e rubacchiando ingranaggi per aggiustare un vecchio automa, unico ricordo del padre defunto. L’incontro con un vecchio giocattolaio scontroso (Ben Kingsley) e la sua intrepida figlioccia (Chloë Moretz) trascinerà Hugo in un’avventura fantasmagorica: un viaggio a ritroso nelle origini del cinema.
Si apre con una carrellata in avanti mozzafiato, Hugo Cabret di Martin Scorsese, e fin dalle prime, vorticose battute, rivivono nell’opera ultima del grande cineasta americano le splendide pagine in bianco e nero di Brian Selznick. È al suo romanzo illustrato (The Invention of Hugo Cabret) – definito, non a caso, dal New York Times, un “film muto su carta” – che Scorsese si ispira, per realizzare un omaggio al cinema di spiazzante intensità visiva e sentimentale: un film che coniuga la bellezza genuina e un po’ naïf del cinema attrazionale del passato a quella levigata e perfettamente consapevole della stereoscopia contemporanea.
Oltre ad essere – citando le parole di James Cameron – una mirabile appli- cazione della tecnologia 3D al cinema d’autore, Hugo Cabret rappresenta infatti una riflessione sullo statuto stesso del cinema nel momento più alto della sua rivoluzione digitale. Laddove Michel Hazanavicius – principale avversario di Scorsese nella corsa agli Oscar 2012 – realizzava con The Ar- tist una celebrazione del cinema vecchio stile recuperando in pieno gli sti- lemi, il regista di The Departed preferisce percorrere la via del metalingui- smo operando per commistione e traendo dal romanzo di Selznick tutti gli spunti necessari per farlo.
Concepito, appunto, come l’equivalente cartaceo di un film senza sonoro, The Invention of Hugo Cabret offre a Scorsese gli elementi ideali per con- durre lo spettatore attraverso i percorsi girandoleschi della fantasia (e non solo di quella infantile). La maestria indiscussa di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo ha dunque il compito, arduo sì ma svolto a mera- viglia, di dare forma plastica e concretezza scenografica ai disegni a car- boncino di Selznick, sbalzando dalla pagina le atmosfere retrò della Parigi anni ’30 e trasportandole nella cornice dorata del grande schermo stereo- scopico.
L’artificio della tridimensionalità, esaltato dalla fotografia magica di Ro- bert Richardson e dal funambolismo della steady-cam, è allora un trucco di prestigio non meno ammaliante di quelli elaborati da Georges Méliès nei suoi film delle origini. Dietro il doppio obiettivo della macchina da presa e di quella fotografica (si ritaglia uno scherzoso cameo “hitchcockiano”), Scorsese ambisce a diventare egli stesso illusionista contemporaneo, celebrando la nascita del cinema nella sua duplice forma artistica e scientifica ma prestando un occhio di riguardo specialmente alla prima.
Ampio riconoscimento viene tributato ai fratelli Lumiére, che del cinema- tografo furono padri e padrini, e nella ricorrenza del simbolo ferroviario – reiterato e replicato in forma tanto reale quanto onirica – si esplica il recu- pero commosso e divertito di un tempo in cui il cinema era ancora territo- rio dell’ignoto, incantesimo capace di stregare con la forza dirompente della novità. Eppure è nelle ultime sequenze del film, dedicate al racconto in flashback della carriera di Méliès (interpretato da un quanto mai somi- gliante Ben Kingsley), che l’amore di Scorsese per la settima arte si eleva al di sopra dell’interesse documentaristico (risale ormai al 1995 Un secolo di cinema – Viaggio nel cinema americano) per farsi celebrazione metafilmica a trecentosessanta gradi.
Il “castello delle meraviglie”, eretto da Méliès per dare forma ai sogni pro- pri e altrui, è il luogo in cui la passione pionieristica per il cinema prende il sopravvento sulla realtà, che pure rientra, brutale, dalla finestra nel mo- mento stesso in cui la Grande Guerra interviene a spezzare gli incanti. Ro- manzando la vera storia del proto-regista francese, Selznick (e Scorsese con lui), costruisce una figura eroica ed emblematica, un mito riscoperto, grazie al quale l’aridità iper-commerciale della tecnologia, troppo spesso applicata a equazioni da botteghino, cede il posto ad una valorizzazione delle forme espressive, così come di quelle narrative.
Il tre volte candidato all’Oscar John Logan (ce la farà quest’anno?) si concede qualche licenza “poetica” laddove, forse, non ce ne sarebbe bisogno, correggendo o eliminando personaggi (ad esempio il giovane Ètienne), ma allo stesso tempo la sua sceneggiatura ha il pregio di focalizzarsi su altri (fantastico il ruolo ritagliato su misura per Sacha Baron Cohen e il “suo” cane), valorizzando il cast britannico – unica eccezione la promettente Chlöe Moretz – e incastonando la storia all’interno di un disegno “filosofico” perfettamente in linea con il personaggio del piccolo Hugo (Asa Butterfield, calzante ma un po’ smarrito).
Il mondo-macchina, calibrato come l’ingranaggio di un orologio (o di un automa), richiede la collaborazione di ogni pezzo del sistema, giustificando l’utilità del singolo con una logica così lampante da trascendere qualsiasi discorso sull’esistenza o meno di un disegno divino. La solitudine, acuita dallo scontro quotidiano con la realtà affollata e frenetica di una stazione di passaggio, trova consolazione nella certezza di uno scopo, sia esso far ri- partire un meccanismo rotto o far rivivere lo spirito agonizzante di un arti- sta in crisi con se stesso. Ed è solo con una chiave a forma di cuore (non potrebbe essere altrimenti) che quell’ingranaggio può essere messo in moto, avviandosi verso il lieto fine.
E se lo script di John Logan non attribuisse a Isabelle il merito di aver messo per iscritto le straordinarie gesta di Hugo Cabret, sarebbe Hugo stesso, oramai adulto, a lasciare che un automa, il suo automa, le racconti. Ma questa, forse, sarebbe stata un’altra storia. Quella che Martin Scorsese sceglie di narrare – un inno d’amore ricco di innumerevoli citazioni (a co- minciare dalla locandina), realizzato con la consueta attenzione al dettaglio– è perfetta così com’è: capace di rendere onore al suo antecedente lettera- rio restando fedele a se stessa.
Voto: 8
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