
Un giorno devi andare – Italia/Francia 2013 – di Giorgio Diritti
Drammatico – 109′
Scritto da Fulvia Massimi (fonte immagine: mymovies.it)
Dolorose vicende familiari spingono Augusta, una giovane donna italiana, a mettere in discussione le certezze su cui aveva costruito la sua esistenza. Su una piccola barca e nell’immensità della natura amazzonica inizia un viaggio accompagnando suor Franca, un’amica della madre, nella sua missione presso i villaggi indios, scoprendo anche in questa terra remota i tentativi di conquista del mondo occidentale. Augusta decide così di proseguire il suo percorso lasciando la comunità italiana per andare a Manaus, dove vive in una favela. Qui, nell’incontro con la gente semplice del luogo, torna a percepire la forza atavica dell’istinto di vita, intraprendendo il “suo” viaggio fino ad isolarsi nella foresta, accogliendo il dolore e riscoprendo l’amore, nel corpo e nell’anima. In una dimensione in cui la natura assume un senso profetico, scandisce nuovi tempi e stabilisce priorità essenziali, Augusta affronta l’avventura della ricerca di se stessa, incarnando la questione universale del senso dell’esistenza umana.
In occasione della sua presentazione al Sundance Film Festival nel gennaio scorso, The Hollywood Reporter lo ha definito “una storia serena e profonda, basata sulle atmosfere più che sulla trama”, mentre Variety lo ha indicato quale esempio emblematico della capacità cinematografica europea di “penetrare ancora la coscienza ed il mercato domestico”. Dopo aver riscosso le lodi della critica statunitense, l’opera ultima di Giorgio Diritti, Un giorno devi andare, si prepara dunque ad ispirare quella italiana, che con un film simile, afferma Roy Menarini, deve necessariamente misurarsi.
In epoca di sbandierata e comprovata crisi del cinema italiano, tanto in termini artistici che produttivi e di riscontro spettatoriale, la pellicola di Diritti si presenta infatti come un vero e proprio miracolo, in grado, forse, di segnare l’avvento di una nuova cinematografia. Ed è nella fragilità e nella magmaticità del lavoro del regista bolognese che sempre Menarini individua l’essenza di tale potere rigenerativo, non già nell’armonia ben costruita della struttura narrativa o dell’apparato visivo, poiché, sostiene a ragione Jasmine Trinca, è l’emozione ad appartenere all’arte, non la perfezione o la compiutezza.
Diritti si confronta con l’arduo compito di replicare, per non dire subissare, il successo internazionale de L’uomo che verrà, e lo fa realizzando un film fortemente voluto, affatto sospinto da logiche commerciali, ma sostenuto invece dalle ragioni dell’istinto e del sentire. La sua è, a costo di suonare arroganti, un’opera universale nella forma così come nel contenuto, un film capace di inaugurare in Italia un nuovo cinema di pensiero, fondato sulle assenze, i silenzi, e la contemplazione di una bellezza priva di parole, ma carica di valori necessariamente da riscoprire, soprattutto nell’epoca dell’infelicità generata da un progresso che innova, ma al tempo stesso inaridisce l’umanità.
Non v’è dunque alcuna casualità, né tantomeno imposizione produttiva (causa fallimento del progetto di partnership con i produttori locali), nella scelta della location brasiliana. Diritti abbandona i luoghi perfettamente conosciuti delle valli piemontesi (Il vento fa il suo giro) e dell’appennino emiliano (L’uomo che verrà) per ritornare nei territori solo parzialmente esplorati nel 2002 in Con i miei occhi, documentario ambientato appunto nella foresta amazzonica.
La realizzazione del suo terzo lungometraggio per il cinema diventa dunque per il regista l’occasione di rivedere quegli stessi luoghi alla luce di un rinnovato interesse per i temi della fede e della ricerca della felicità, della necessità, cioè, di riscoprire le priorità della vita, annientate dalla pesantezza dei ritmi della modernità e dalla difficoltà di affrontare il dolore e la solitudine nella società contemporanea.
L’incontro di Augusta con la natura incontaminata e incontrollabile (anche in fase di realizzazione filmica) del Brasile, e con l’alterità non occidentale che la accoglie nel proprio ventre comunitario, diventa per lo spettatore, oltre che per la protagonista, un viaggio spirituale che trascende la rigidità missionaria dell’imposizione della fede cattolica o dello sradicamento delle tradizioni (utilizzate come forma di intrattenimento per turisti), facendosi esperienza assoluta.
I luoghi, mai idealizzati ma sempre vibranti, veritieri, a tratti crudeli, del cinema di Diritti rivivono, vivificati, nella bellezza spontanea e parzialmente incorrotta dei paesaggi amazzonici, a loro volta esaltata dalla straordinaria fotografia di Roberto Cimatti. Il mutismo della natura, immobile e fieramente esposta alla contemplazione, si riflette nella diluizione dei dialoghi, nella progressiva scomparsa di una parola che non serve, e nella rarefazione di una musica – quella composta da Daniele Furlati e Marco Biscarini – fatta di sottrazioni e “fasce sonore che galleggiano in mezzo al vuoto”.
Ed è esattamente questa la sensazione provata di fronte alla maestosità delle immagini, all’impossibilità dolorosa ma sublime della natura che non si può abbracciare, e sulla cui scia silenziosa affiorano le parole di Simone Weil e della sua Attesa di Dio. La fede cercata da Augusta nella missione cattolica di evangelizzazione si tramuta in ricerca di pace e di grazia, in un’altra forma di credenza che viene dal contatto con l’esperienza reiterata della morte, con la semplicità effimera di una danza collettiva, e con la riscoperta dei valori puri della semplicità, dell’amore, del rispetto del corpo in tutte le sue parti (come testimoniato dalla splendida preghiera finale di Janaina).
Diritti non ha la presunzione di credere che si possa davvero rispondere agli interrogativi della fede con un film, ma il suo è un tentativo encomiabile di interrogarsi sulla sensazione di un altrove che potrebbe esistere oppure no, e che sembra infine coincidere con le parole, attualissime, del Papa neo-eletto sulla necessità, comune a tutti gli uomini, fedeli o meno, di perseguire la ricerca della verità, della bontà e della bellezza. Quella bellezza che, per Simone Weil, era segno tangibile dell’incarnazione di Dio nel mondo.
Con la complessità teologica e filosofica dei suoi contenuti, l’opera di Diritti tocca nel profondo, avvicinandosi, specialmente nelle magnifiche sequenze finali, ad esperienze cinematografiche emotivamente estreme come quelle incarnate dai lavori di Terrence Malick. L’avventura del film di Diritti si dispiega fin dal suo apparato pre-produttivo, con il coinvolgimento della Lumiere & Co. di Lionello Cerri, dei finanziamenti di Eurimages e del partner di co-produzione francese, a sostegno di un’opera difficile ma necessaria per la sopravvivenza stessa del cinema italiano, non più bacino culturale ristretto ma esperienza finalmente e veramente internazionale.
Voto: 8
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