Scritto da Francesco Carabelli
Il campanile suonava già le undici e tutto, come al solito, andava storto. Una giornata come tante di quelle di fine quadrimestre, quando l’inverno è al suo apice e poche sono le giornate in cui i raggi del sole, che arrivano sulla terra riescono a scaldare un ambiente freddo di per se’, che lo diventa ancor di più quando fredde sono le persone che vi vivono. E così, da chissà quanti anni facce compite con la sigaretta in bocca passano lungo i corridoi e, schifati di tutto e di tutti, se ne vanno e nemmeno fanno finta di vederti o, al massimo, ti guardano quasi con un senso di pietà. Ma spesso, oltre a questi tipi superiori ti capita di incontrare qualche tipo strano. Solo dagli occhi, da quella rassegnata mancanza di vita, di parola, di comunicazione capisci o almeno ti sembra dì capire il mondo in cui vivono, molto peggio dell’esilio di Dante. Spesso ti capita di sognarli la notte: quei visi che esprimono dolore represso, ma tenuto nascosto con dignità, quasi noncuranza. Quando però non puoi esprimerti, prima o poi, sei destinato a scoppiare, per poi ricadere nello stesso errore e vedere a mano a mano il tuo spirito, la tua anima erosa dalla pioggia battente della rabbia, della vergogna, fino a quando il dolore supera la sopportazione e sopraggiunge la paranoia e poi la morte. E’ proprio da qui che inizia la storia di Mauro, uno dei tanti, uno di quelli che vivono nell’ombra, ma che sperano in un futuro migliore, sogno che ben presto si trasforma in utopia.
A Mauro però il coraggio non mancava, o almeno sentiva dí esser capace di dare qualcosa di più, di poter far meglio, di poter liberarsi da tutti i vincoli che lo stringevano ormai alla figura di incapace, di sfortunato. Ancora due ore di lezione, poi la libertà , e questa volta poteva essere quella decisiva. Ma cosa poteva fare solo in mezzo ad un mondo di individui estranei, altrettanto soli nella propria superbia o nella loro incapacità di essere attivi? Non lo sapeva proprio. Un sonno improvviso era caduto sulla sua piccola testa, quasi sintomo di una sopraggiungente paranoia. Il professore spiegava, spiegava, inossidabile continuava, ma i suoi discorsi parevano trasformarsi in nebbia che si spandeva a coprire tutto ciò che circondava Mauro. Poi il subconscio prendeva il sopravvento e gelidi venti spazzavano la nebbia portando Mauro nel buio completo del sonno. Rapide immagini si susseguivano nella sua mente. Camminava all’uscita da scuola verso casa, tutt’attorno facce conosciute, ma allo stesso tempo sconosciute, sempre fredde ed impassibili. Il lungo viale alberato si stemperava all’orizzonte, fradicio di pioggia che ancora batteva, quasi come in un’opera di un acquarellista. Ma la fine del viale si avvicinava sempre più e le immagini tornavano a fuoco, poi una curva e ciò che di certo non ci si sarebbe aspettato: una macchina veloce, troppo veloce, forse come il mondo dominato dal caos e dall’irrazionalità. Una luce abbagliante e poi il nulla. Il tempo ti scorre vicino, ma tu non lo senti; il tempo si annulla e si trasforma in un istante che può durare giorni, mesi, anni. All’improvviso però qualcosa sembra ritornare alla normalità. Lontano si sente una palpitazione di vita, allo stesso modo in cui appoggiando l’orecchio ai binari si può percepire un treno ancora distante. Una mano forse, si una mano che cerca di scavare fino al cervello per poi far finalmente riaprire gli occhi. Si lentamente gli occhi si riaprono, la luce dapprima sembra tramortirli di nuovo, ma la vita prende il sopravvento e più splendido del sole un viso angelico appare.
Purtroppo non c’era tempo per continuare a sognare, il campanello turbò il sonno innocente di Mauro e tutto svanì come mai fosse esistito. Il sogno non rimane altro che ricordo, spesso pallido, che ben presto scompare sotto il peso di nuovi sogni, di nuove aspirazioni. Mauro si svegliò di soprassalto, ma ora sapeva quello che doveva fare, quello che lo poteva riscattare. Tutti uscivano veloci dalle grigia mura della scuola, lui aspettava, aspettava che nessuno ci fosse più a disturbarlo. Lentamente il cielo si fece scuro, il buio coprì tutto e anche Mauro venne inghiottito in esso, dimenticato da tutti, ma da nessuno. L’ora era propizia, egli annaspava nell’oscurità, ma riuscì a raggiungere, contando e misurando i passi, la propria meta. Solo una porta lo separava dal sogno. Una porta che significava molto: era la divisione di due mondi contrapposti, l’utopia e la realtà, il desiderio e la cruda quotidianità. Oltre quella porta tutto diventava possibile. Già un’aria diversa sembrava esser entrata nei suoi polmoni: l’aria della salvezza. Poche volte era entrato là dentro, ma già si sentiva a casa. Camminava lentamente rasentando il muro, alla ricerca della classe agognata dove ricordava aver visto quel viso angelico. Finalmente una maniglia. Alzò la testa, analizzò la scritta sulla porta, ma si accorse che non indicava la classe giusta. Continuò allora la ricerca e al secondo tentativo arrivò la dove voleva. Aprì lentamente per non provocare cigolii sospetti. La luce dei lampioni entrava fioca dalla strada lì vicino, attraverso le finestre. Il suo cuore sembrava non resistere e batteva più veloce di quanto gli fosse mai successo. Inebetito, Mauro si avvicinò alla lavagna, prese un gesso e iniziò a scrivere. Bianca scendeva la polvere, quasi neve, a coprire il pavimento. Insicura la mano di Mauro incideva la lavagna e alla fine, quasi priva di forze, lasciò cadere il gesso a terra, là dove già c’era la polvere. Un gigantesco cuore occupava la tavola nera, quasi volesse soffocarla e toglierle la dignità che veniva proprio dal colore. Tutto era un gioco di chiaro e di scuro: il volto di Mauro, la lavagna, il pavimento coperto di un leggero strato di polvere, la notte.

Scritto in un momento di sconforto nell’inverno del 1995, pensando a te, “my little dear Eloisa”
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Il racconto è stato pubblicato sul quotidiano La Prealpina il giorno 8 febbraio 2021
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