Pollo alle Prugne

Poulet aux prunes – Francia/Germania/Belgio 2011 – di Vincent Paronnaud, Marjane Satrapi

Commedia/Drammatico – 93′

Scritto da Fulvia Massimi (fonte immagine: finanzaonline.com)

Teheran, 1958. Dopo che la moglie ha distrutto il suo violino, Nasser Ali Khan decide di lasciarsi morire. Il film racconta la sua ultima settimana di vita.

Con Persepolis, piccolo-grande caso della stagione cinematografica 2007-2008 (Gran Premio della Giuria a Cannes e una nomination all’Oscar), l’illustratrice iraniana Marjane Satrapi si era dimostrata capace di trasformare la critica ironica ma corrosiva al regime persiano, lanciata dalle pagine del suo graphic novel, in un film d’animazione notevole per originalità e impatto espressivo.

Cinque anni più tardi, affiancata per la seconda volta dal comico francese Vincent Paronnaud, la Satrapi torna dietro la macchina da presa per tentare un’operazione ancor più ambiziosa ma pienamente riuscita: fare del suo settimo “romanzo illustrato”, Pollo alle prugne, una pellicola di fiction con attori in carne ed ossa, presentata con successo alla 68esima Mostra del Cinema di Venezia.

La Teheran degli anni ’20 e ’50 non è più il teatro delle rivoluzioni socio-politiche che avevano animato le pagine in b/n di Persepolis ma fa da sfondo ad una fiaba onirica e struggente, a metà tra commedia nera e melodramma: un racconto carico di figure archetipiche e ancestrali (da notare la quasi-omonimia tra il protagonista Nasser-Ali e lo Scià di Persia Nasser-al-Din Shah, illustre antenato dell’autrice), nel quale la malinconia dell’amore spezzato si fonde con la fiera celebrazioni di radici culturali sincretiche ma mai rinnegate.

L’occidentalizzazione dettata dalla co-produzione europea (una partnership franco-belgo-tedesca) e dal cast francofono (piccola parte anche per la nostrana Isabella Rossellini) rende necessari alcuni piccoli aggiustamenti (uno su tutti: il violino e non più il sitar), pur senza snaturare l’impianto narrativo di un’opera nella cui cornice fiabesca, e a tratti surreale, perfino le concessioni più fantasiose trovano ampia giustificazione. Che sia l’angelo della morte Azrael a narrare il racconto degli ultimi giorni di vita di Nasser-Ali non è allora così sorprendente, giacché, a differenza di Persepolis – dove la voce-over era quella di Chiara Mastroianni (qui nel ruolo di Lili adulta) – non è la natura autobiografica della storia a ispirare le potenti stilizzazioni della Satrapi, quanto piuttosto l’esigenza di cimentarsi con le infinite possibilità della favoloso e del fantastico.

Per tradurre su schermo lo sconvolgimento di fabula già operato su carta, la Satrapi adotta le medesime soluzioni strutturali, conservando la scansione in capitoli del graphic novel (non a caso sottotitolato “un romanzo iraniano”) e facendo nuovamente affidamento sulle abilità di Stéphane Roche al montaggio, così da guidare lo spettatore in un viaggio temporale che alle consuete esplorazioni del passato associa le potenzialità retoriche della prolessi, senza perdere in fluidità narrativa né tantomeno visiva.

Il tratto stilistico distintivo della Satrapi – un minimalismo bicromatico perfettamente funzionale nella sua essenzialità – viene abbandonato a favore delle molteplici soluzioni espressive offerte dal cinema, spaziando da codici più tradizionali a quelli più azzardati dell’animazione (a colori), della sit-com (esilarante il flash-forward di Cyrus adulto) e della traduzione onirica di pulsioni erotiche (verso la Sophia nazionale) e tanatologiche (ovvero “ma quant’è difficile suicidarsi?”). L’ironia tragica s’insinua così nel discorso filmico, donandogli leggerezza e rendendolo paradossalmente più sopportabile, soprattutto in vista dello struggimento melodrammatico delle sequenze conclusive.

Il racconto dell’amore impossibile tra Nasser-Ali e la giovane Irane (Golshifteh Farahani), così mitigato e attutito, non risulta allora eccessivo nella sua drammaticità, e giunge infine a giusto compimento di una narrazione sopra le righe, che alle logiche della narrazione illustrata deve molto, o forse tutto. In una pellicola che alla musica dedica un’attenzione ed un affetto così sentito (è nello strumento spezzato che si situa la metafora dell’amore infranto e della rinuncia alla vita) il lunghissimo montaggio alternato conclusivo, magnifico pezzo di cinema “muto” accompagnato soltanto dalle melodie di Olivier Bernet, è tanto più significativo nel suo agire per contrasto, condensando nella segmentazione ellittica delle immagini la forza di un sentimento inesprimibile a parole: l’amore che viaggia attraverso il tempo e gli spazi, sopravvivendo nella memoria per spegnersi infine di fronte ad un mancato(?) riconoscimento.

I pochi cenni storici, affidati al personaggio del comunista Abdi (Eric Caravaca) e alle scenografie di Udo Kramer, forniscono una sommaria contestualizzazione, ma non impediscono alla novella della Satrapi di superare le barriere della realtà per approdare al regno magico del mito moderno: uno spazio ricolmo di cianfrusaglie, ninnoli e polveri dorate come il bazar del mellifluo Houshang (strepitoso Jamel Debbouze nel doppio ruolo di mercante e mendicante). Contrariamente a Deleuze, allora, Pollo alle prugne dimostra come lo “shock visivo” possa avere luogo non solo grazie al pensiero ma anche al sogno, trascinando lo spettatore in un’esperienza multisensoriale che alla vista e all’udito associa le capacità tattili, olfattive (il profumo del gelsomino ritorna proustianamente protagonista dopo Persepolis) e perfino gustative (a partire dal titolo) della settima arte.

Istrione moderno, Mathieu Amalric si getta a capofitto nell’universo straniante e allucinato di Nasser-Ali senza risparmiarsi e portando agli eccessi – comici e drammatici – un talento poliedrico sorprendentemente malleabile. Nei tableaux vivants così come nelle gestualità esasperate ed esagerate, desunte dall’impianto fumettistico, Amalric (e Maria De Medeiros con lui, nel ruolo dell’insopportabile moglie Faringuisse) si ritrova appieno, aiutato dalla fisionomia insolita che lo caratterizza per natura, e giustifica così una scelta di casting che non potrebbe essere più appropriata, o, per meglio dire, obbligata. Ed è grazie alla sua interpretazione che il violinista dal cuore spezzato ritratto dalla Satrapi acquista lo spessore della terza dimensione, consentendo alla disegnatrice iraniana di centrare il suo secondo obiettivo registico e di consolidare le basi di una visione cinematografica consapevole, che alla volontà di porre domande affianca quella di manipolare i mezzi espressivi dell’arte trascendendo le mere categorizzazioni di genere.

Commedia, tragedia, racconto storico o fiabesco si mescolano e si compenetrano senza prevalere l’uno sull’altro, poiché il cinema, come l’animazione, è anzitutto medium e, in quanto tale (a MacLuhan piacendo) foriero di un messaggio, sia esso la denuncia di una condizione sociale o la drammatizzazione di un concetto universale come l’amore. E Marjane Satrapi non poteva trovare modo migliore per dimostrarlo.

Voto: 8

 

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