
Scritto da Francesco Carabelli
Sono passati quasi venti anni. Non sono più studente, lavoro come impiegato commerciale in una ditta attiva nel settore edile. A volte ti penso ancora, ai nostri fugaci incontri in un’università, quando i nostri sguardi si incrociavano sulle scale per salire al dipartimento o negli ampi corridoi dove si passava il tempo sulle panchine in attesa delle lezioni successive. Eri sempre tu, eri sempre Elisa: il tuo sguardo dolce, il tuo sorriso disteso, solo a volte incrinato da un velo di dubbio o tristezza, ma capace di rianimarmi quando ti scorgevo. Il dolore dell’essere inadatto a quegli studi, la felicità della tua presenza anche se erano anni che non ci fermavamo a scambiare una parola. Mi riconoscevi con gli occhi.
Era successo anche dopo la laurea. Ero alla ricerca di un impiego stabile e dedicavo il tempo ad un’associazione culturale. Era qualche mese che collaboravo con loro. Si celebravano i 60 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale e avevamo preparato con ricerche e sforzi una piccola mostra sui nostri nonni, su coloro che avevano vissuto in prima persona quegli anni, sulle loro testimonianze, voci che ci parlavano di un passato che li aveva segnati per sempre, in guerra o nei campi di concentramento. I ragazzi dei licei avevano preparato grazie all’aiuto di abili registe uno spettacolo che avrebbe poi avuto importanza nazionale e la prima ebbe luogo nel mio paese, nel teatro Auditorium un sabato di fine aprile.
Quale la sorpresa nel vederti nell’atrio del teatro, in attesa di un biglietto, mentre visitavi la mostra. Poi ti avvicinasti alla biglietteria, dove ero di turno, e i nostri sguardi si incontrarono per un breve istante. L’imbarazzo forse, forse l’incertezza, ma quegli occhi guardavano dentro la mia anima ad un passato comune. Forse eravamo diventati degli estranei, ma qualcosa rimaneva in noi di quei momenti che ci avevano fatto conoscere e che avevano segnato le nostri giovani vite.
Mi ricordo di te, mentre dopo lo spettacolo, con un occhio guardavi ancora la mostra e con l’altro sentivi il mio sguardo alla tua ricerca. Eri sola, ma eri forse già destinata a qualcun altro.
Molto spesso situazioni del genere mi hanno aperto gli occhi sulla gentilezza e il suo significato. E’ una questione ermeneutica, ovvero di interpretazione. Mi risulta più facile come uomo interpretare la gentilezza femminile come segno di interesse, ma in questo compio un errore, perché molto spesso gentilezza è solo disponibilità all’ascolto, antropologicamente innata nella donna e non segno di reale interesse per la controparte. Quante volte l’ho provato sulla mia pelle e quanto ci ho sofferto. Mi sono posto delle domande a riguardo, ma quella antropologica è l’unica risposta logica che ho trovato come filosofo e come uomo.
Mi rimane il rammarico di non averti parlato in quella situazione, forse non sarebbe servito a nulla, nel far crescere una relazione che io bramavo, ma che tu probabilmente non desideravi o che comunque faticavi a capire. Forse anche se ci fossimo parlati il risultato sarebbe stato il medesimo e le nostre vite si sarebbero separate comunque.
Da quel giorno ti ho visto solo un’altra volta, un sabato mattina, in centro città; probabilmente eri uscita per fare shopping o per bere un caffè con le amiche. Era il 2007 e quella mattina tornavo da Milano, dove ero andato a ritirare un’altra mostra da allestire con l’associazione culturale. Sono casi, situazioni, coincidenze, ma un po’ credo al destino, ad una presenza che guida le nostre vite e ne determina le traiettorie. I nostri sguardi si incrociarono per qualche secondo, ma vidi dell’insofferenza, forse per la prima volta da quando ti conosco, come se la mia fosse una presenza poco gradita in quel frangente. Poi da allora più nulla.
Ho fatto nuove esperienze che mi hanno cambiato, gioie e dolori come tutti. A volte ho sentito il desiderio di rivederti, di sapere qualcosa di te. Certo oggi è più facile che in passato, grazie ai social network, ma erano solo piccoli sprazzi che non mi davano il senso vero di te, come quando seppur ignorandoci, eravamo presenza.
Mi sono ritrovato in altre situazioni che la vita mi ha messo davanti, sempre più dipendente dal computer come medium per le relazioni, e ho incontrato un’altra ragazza che porta il tuo nome. Non ti assomiglia, è francese, bretone ma inglese, per parte di padre. Ci sentiamo spesso con la scusa di un tandem learning. Mi ha invitato a casa sua a Lione, dove studia. E’ entusiasta della vita. Vedo in lei la tua gioia di vivere, ma è una persona che brucia subito a differenza tua. In lei gli entusiasmi svaniscono velocemente, ma grazie a lei sto migliorando considerevolmente il mio francese scolastico, rinverdito da qualche lettura di rivista di cinema francese.
Ha degli alti e bassi: a volte è sole a volte è luna. Sparisce per lunghi periodi, poi ritorna in un tira e molla estenuante.
Io non viaggio, sono anni che non viaggio più e trovo il coraggio di dirglielo. Si apre uno spiraglio, si confida, mi dice che non è tutta rosea la sua vita. Trovo la sua fiducia e una piena confidenza.
Mi aspetto che lentamente forse si vada oltre. La invito in Italia. Prima di Natale nel 2016 sono fiducioso in quanto sto costruendo qualcosa con lei giorno per giorno. Ma nei primi giorni del 2017 scopro che è andata a convivere con un ragazzo.
Perdo la testa. Come già in passato le “libere decisione altrui”, sulla mia pelle agitano la tempesta. Ricado nella disperazione, non voglio vedere più gli amici di sempre, sparisco dalla circolazione, mi chiudo in casa alla ricerca di una risposta e inizio a frequentare la sponda occidentale del lago Maggiore, passo interi pomeriggi ad Arona, che vedo come una piccola città francese dove perpetuare il mio sogno di felicità.

Inizio a conoscere a menadito i vicoli e i negozi, i sabati brumosi in riva al lago, le luci della sera che si riflettono sullo specchio d’acqua. Diventa una seconda casa, una valvola di sfogo. Di solito passeggio stando lontano il più possibile dal caos, anzi lo temo e mi rifugio nelle librerie. Passo in rassegna tutti i libri francesi, ne acquisto qualcuno, sperando di perpetuare il mio affetto per lei. Entro spesso nella piccola chiesa del corso. Domando alla Vergine di proteggere Elise, di preservarla da ogni male. Passo così i miei sabati e le mie domeniche.
Divento amico dei librai, amicizie che sopravvivono ancora ad oggi, nonostante la lontananza e il Covid e lentamente trovo delle ragioni alle mie domande, capisco che la sua scelta non è una scelta egoistica, ma è una scelta di sopravvivenza.
Ci sarà ancora tempo per noi, il tempo di un’estate, per confrontarsi e conoscersi, poi sparirai di nuovo, nel tuo dolore, non più solo psicologico, ma anche fisico.
Ti penso pur nella tua assenza. Ogni tanto mi chiedo se hai finito l’università per proseguire la quale hai fatto grandissimi sforzi. Rivedo in te il mio malessere, il mio sentirmi non a proprio agio davanti alle sfide che la vita ci pone, lavorative o di studio o anche solo relazionali, ma le tue decisioni in qualche modo mi hanno formato, mi hanno posto di fronte al mondo, non più passivo spettatore, ma interprete.
Portate lo stesso nome, provenite da luoghi diversi, molto lontani, ma siete entrambe espressione della presenza di Dio in questa terra, come ben ricorda il significato del vostro nome di origine ebraica.
Vi devo ringraziare perché avete significato molto nella mia vita e mi avete aperto nuovi orizzonti rendendomi più consapevole.
Spero che un giorno ci rivedremo. Vostro Mauro!
Il racconto è stato pubblicato sul quotidiano La Prealpina di sabato 27 febbraio 2021
Rispondi