
Valhalla Rising – Danimarca/Regno Unito 2009 – di Nicolas Winding Refn
Azione/Avventura/Drammatico – 93′
Scritto da Alessandro Pascale (fonte immagine: mymovies.it)
Un uomo muto e senza un occhio è tenuto prigioniero da un gruppo di vichinghi. Questi lo lasciano uscire da una gabbia solo per combattere contro altri guerrieri in cruenti scontri corpo a corpo. Nonostante le vessazioni cui è sottoposto, l’uomo appare invincibile. Un giorno riesce a liberarsi dei suoi carcerieri: li uccide tutti tranne uno, il ragazzo addetto al suo sostentamento. I due vagano per le brughiere fino a incontrare un piccolo gruppo di vichinghi cattolici, intenzionati a recarsi in Terra Santa per combattere gli infedeli. Il gruppo inizia il viaggio in mare; presto una fitta nebbia impedisce loro di tenere la rotta. Quando la compagnia, piagata dalla sete, sembra spacciata, la nave avvista di nuovo terra. Ma il luogo raggiunto non è quello voluto, bensì una terra sconosciuta ed ostile.
Un film che si presenta come un’avventura-epopea un tantino splatter che riguarda vichinghi potrebbe tranquillamente rientrare in uno di quei filoni da cinema-blockbuster che lasciano il tempo che trovano. Una di quelle americanate un po’ paraculo con la puzza sotto al naso, che poco lasciano al pubblico se non un’estetica che nel migliore dei casi potrebbe avvicinarsi allo Snyder di 300 (e nel peggiore a robe convenzionali inutili come Il tredicesimo guerriero).
Questo il pregiudizio. Poi arriva la visione e cambia tutto. In realtà già il nome del regista Nicolas Winding Refn, a detta di molti uno degli autori danesi più talentuosi di sempre, doveva già essere una buona garanzia che Valhalla Rising sarebbe stato altro. E fortunatamente così è stato.
L’opera infatti è assai complessa e densa di riferimenti artistici e letterari. La completa immersione in una natura selvaggia, ostile, affascinante e misteriosa, all’interno della quale l’uomo si perde e scopre tutta la propria insignificanza, non può non ricordare l’Herzog di Aguirre furore di Dio. L’intento civilizzatore dei “guerrieri di Dio” è sostanzialmente lo stesso: ricerca di onori, ricchezze e, sullo sfondo, salvezza dell’anima. Poco importa quindi che si arrivi in Terra Santa o in uno sperduto angolo infernale abitato da selvaggi. Tale viaggio avviene con un importante riferimento letterario: la nebbia priva di vento che avvolge la barca, lasciandola immobile in balìa di una fantomatica maledizione che indebolisce e tortura silenziosamente i superstiti, è infatti ripreso dalla Ballad of the ancient mariner di Coleridge, anche se qui manca il motivo scatenante dell’albatross ucciso. Infine tale viaggio, condotto inconsapevolmente attraverso la risalita di un fiume che conduce verso l’interno di un territorio sconosciuto, è interpretabile come la metafora di un viaggio interiore condotto soprattutto dal protagonista dell’opera, il temuto One-Eye, guerriero selvaggio e dal passato oscuro ma certo non innocente. Inevitabile quindi il riferimento al romanzo di Conrad, Cuore di Tenebra, e alla relativa trasposizione cinematografica che occupa una parte importante di Apocalypse Now.
Non manca uno sguardo più romantico, appassionatamente poetico e incantato di fronte alla maestosità della natura e del paesaggio, all’interno del quale l’uomo è calato in una feroce lotta per la sopravvivenza e per la propria affermazione su un generico “altro”. E’ l’influenza di Terrence Malick e di opere come La sottile linea rossa e Il nuovo mondo.
Infine la violenza, il grottesco, lo splatter gratuito, l’ingresso in un mondo puramente umano in cui non si riesce più a distinguere il bene dal male, mandando in confusione non solo i protagonisti ma gli stessi spettatori. Ecco entrare in scena la ventata iconoclasta di gente come Lars Von Trier, il cui stile viene però ampiamente superato facendo ricorso ad un utilizzo di musiche e silenzi assai espressivi, capaci di creare climi di tensione esasperanti.
Fenomenale da parte di Nicolas Winding Refn la costruzione dei personaggi, su cui troneggia l’immagine di un One-Eye impersonato magistralmente da un freddo Mads Mikkelsen (degno per presenza e caratura del Viggo Mortensen che fa risplendere le ultime opere di Cronenberg). Di un tocco eccezionale soprattutto le scenografie, l’uso dei colori, la fotografia, in generale ogni aspetto puramente visivo che esemplifica alla perfezione quel che si può definire il cinema post-moderno.
Interessanti però sono anche il soggetto e la sceneggiatura, ridotti all’osso ma in grado di trovare piena conclusione narrativa e simbolica ad un percorso significativo per il suo tasso di radicale denuncia del fondamentalismo religioso cristiano. Valhalla Rising è in definitiva un viaggio fisico ma anche spirituale, che solo al termine dà spiegazione del proprio essere un cammino di redenzione, espiazione e passione, di cui è protagonista l’unica persona non mossa da intenti puramente religiosi ma, molto più semplicemente, umani ed etici. Tale è da intendere il finale, in cui One-Eye accetta di sacrificarsi per dare una speranza di salvezza al giovane compagno di sventura. Il tutto avviene al termine di una serie di estranianti visioni infernali, profetiche e lisergiche che colpiscono il protagonista per tutta l’opera, aggiungendo una nota di surrealismo onirico ad un film artisticamente già straripante. È in definitiva questa mancanza di compromessi commerciali il più grande difetto nonché il più grande pregio dell’opera. Valhalla Rising non è un film per tutti, anche se andrebbe visto da tutti.
Voto: 8
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