L’OMBRA DI CASA

(THRILLER DA UNA STORIA VERA)

CAPITOLO 2 – LOCKDOWN

Scritto da Matteo Pivotto (immagini dell´autore)

Innovazione, progresso scientifico e tecnologico, transizione verso modelli economici e stili di vita sostenibili e virtuosi in termini di contenimento degli sprechi energetici e di riduzione delle emissioni climalteranti. Sembravano precetti fin troppo accademici, contenuti già noti, forse più “per sentito dire” dai comizi scientifici in televisione o sui social, eppure lontani dalla nostra sfera di valori quotidiani.

Tuttavia, quando il corso della storia prosegue per un’altra via, inaspettata e repentina, sorgono spontanei interrogativi e perplessità, e le strategie per arginare gli effetti di una tale situazione devono essere immediati, efficaci e risolutivi.

La primavera aveva cominciato a sbocciare i suoi germogli, le gemme iniziarono a schiudersi, segno che l’inverno freddo aveva lasciato il posto a un clima più mite. Forsizie e magnolie erano fiorite quasi contemporaneamente nei nostri parchi e giardini.

Sembrava che la natura avesse prepotentemente riconquistato quella facoltà di esprimersi e di mostrarsi in tutta la sua meraviglia, una libertà effimera di cui noi, nel frattempo, ci eravamo privati.

Un po’ ovunque in Italia lo scenario era pressoché similare; fabbriche che avevano arrestato la produzione, scuole con i cancelli serrati e sui quali vi era apposto un cartello con la dicitura “Chiuso fino a nuove disposizioni governative”; lunghi manti stradali che si dirigevano prospetticamente verso il vuoto, centri urbani semi deserti, nei quali i pochi segni di dinamismo umano rimasti erano rappresentati da file e file di persone, distanziate tra loro e in coda, impugnando i corrimano dei cestini o dei carrelli, in attesa del proprio turno d’ingresso ai supermercati e ai negozi rimasti aperti.

Quella stessa tecnologia tanto seducente, che sino ad allora avevamo persino accusato di proiettarci in una realtà anche troppo virtuale, verosimile sebbene distaccata, era diventata poi essa stessa la nostra nuova quotidianità, come una sorta di ancora di salvezza e unico mezzo possibile per unire pur restando lontani, per continuare a vedersi e “sentirsi” nonostante tutto.

In quel siffatto contesto, la natura sicuramente ne trasse beneficio, e le fioriture rapide avevano dato origine a un tripudio di colori e profumi, di cui noi difficilmente potevamo giovarne, chiusi nel nostro lockdown.

La rallentata mobilità degli autoveicoli aveva arginato drasticamente l’inquinamento atmosferico, accelerando, benché per pochi mesi, la simulazione di quella indipendenza dai carburanti fossili che avrebbe dato concretezza a processi e atteggiamenti ecosostenibili da parte di ciascun italiano.

Il mondo era diventato “prigioniero” nelle proprie case e davanti ai propri schermi, complici dell’avanzata delle tecnologie digitali anche per le comunicazioni quotidiane.

Le giornate di “quarantena nazionale” trascorrevano allora in questo modo, tra lavori domestici ordinari e attività professionali riconvertite a domestiche, in modalità “smart”.

Diverse volte mi capitò di tenere delle lezioni da remoto, nella più moderna versione della didattica denominata “formazione a distanza”. Cercavo, per quanto possibile, di programmare le sessioni in videochiamata al mattino, o nei momenti del giorno possibilmente non ricadenti nella fascia oraria compresa tra l’una e le quattro pomeridiane. Non avrei mai voluto arrecare volontariamente alcun incomodo alla mia vicina dell’appartamento soprastante al mio, già probabilmente ed evidentemente provata per chissà quali motivi.

Purtroppo, com’era da aspettarsi in fondo, l’orario cosiddetto “del silenzio” non poteva essere sempre rispettato, in considerazione degli orari di lavoro.

Un pomeriggio, infatti, erano circa le tre, e stavo dando lezione in videoconferenza.

Tutto procedeva regolarmente, ma in cuor mio non mi sentivo affatto tranquillo. Una strana sensazione di nervosismo ed irrequietezza, diffusa un po’ in tutto il corpo, mi provocava un leggero tremore alla mano destra. Il tono della mia voce, normalmente sereno e controllato, soprattutto nelle circostanze in cui dovevo erogare le docenze, si rilevava affannoso a tratti, roco e afono, sebbene mantenessi un volume sufficientemente percepibile, per farmi comprendere senza fatica dai miei uditori in ascolto via internet.

Il mio stato d’animo era un segno premonitore, e tale si rilevò molto presto. Il soffitto cominciò improvvisamente a vibrare, assieme al rumore chiassoso di passi avanzati pesantemente sul parquet in legno, e con atteggiamento volutamente provocatorio e intimidatorio.

Il rimbombo provocato risonava in tutta la stanza. Quella donna sembrava “muoversi come un elefante in una cristalleria”, come dice il detto.

Quel frastuono così cupo e intenso si propagava velocemente alle pareti circostanti.

Interruppi bruscamente il mio discorso. Ero spaventato quanto incredulo della situazione. Di nuovo un brivido, più somigliante a una scarica elettrica, mi percorse le gambe, che divennero tremolanti.

Chi mi osservava per mezzo dello schermo, poté notare con stupore lo sguardo atterrito che avevo sul volto, e quel mio mutato, singolare comportamento.

Nel frattempo, quei passi si erano ulteriormente rafforzati. Il soffitto pareva voler cedere sopra la mia testa. Una voce lontana, incuriosita, mi chiese attraverso il microfono: “Si sente bene? C’è qualche problema?”. Attesi qualche secondo prima di provare a rispondere, non ne avevo la forza. Quando ebbi finalmente trovato un minimo di coraggio, in un batter d’occhio il monitor si spense davanti a me, il computer e la mia lampada da tavolo smisero di funzionare.

Ancora una volta, mi ritrovai da solo, al silenzio, nella penombra di una luce fioca che filtrava dal vetro di quella finestra che voltava verso nord.

Capii che l’adduzione di energia elettrica era saltata. Scesi allora di corsa, ansante e adirato, nel vano tecnico adiacente alla rampa di scala condominiale, che consente l’accesso agli altri appartamenti.

Riconobbi il mio contatore, e commutai prontamente l’interruttore nella posizione di accensione. Qualcuno l’aveva intenzionalmente abbassato.

Chiusi successivamente l’armadietto protettivo, risalii frettolosamente lo scivolo che conduce ai garage, quindi deviai un attimo il percorso, attraversando il mio giardino.

Mentre camminavo, osservai che tutte le tapparelle dell’abitazione al primo piano erano abbassate tranne una, che era però di poco sollevata, in misura comunque non sufficiente a illuminare quella stanza, tra l’altro proprio al di sopra di quella in cui mi trovavo io. “Ma cosa sta combinando?”, dissi tra me.

Rientrando in casa, udii il mio smartphone squillare. Smise. Sul display, apparve una scritta che indicava che qualcuno, usando un numero sconosciuto di cellulare, aveva provato a contattarmi già tre volte ormai, l’ultima delle quali per ben quarantadue secondi.

Riaccesi il pc, riavviai il software di web meeeting, e mentre ero in attesa che la connessione si ristabilisse, telefonai a quel numero. Ovviamente, si trattava di uno dei miei corsisti, al quale porsi le mie scuse, e spiegando che si era trattato probabilmente di lavori sulla linea elettrica, asserii che in pochi istanti mi sarei ricollegato.

Allorquando nuovamente in linea, ripresi la lezione all’incirca al punto in cui l’avevo sospesa.

Gli sguardi degli allievi erano stupiti, forse perché curiosi, o forse perché un po’ indispettiti.

Dopo solo due minuti, il sistema s’interruppe ancora. Ero off-line per la seconda volta.

Ed ecco un altro calpestio provenire dalle scale condominiali. Si trattava sicuramente di lei, della mia vicina! Aveva “staccato” di nuovo la corrente elettrica, ma stavolta cercava di nascondere i suoi passi cadenzandoli in maniera felpata e sorda. Nonostante lei tentasse di celare quel suo misfatto, a me non sfuggì.

Raccolsi il fiato, poco e soffocato, e le forze ormai stremate che mi erano rimaste, e gridai a gran voce: “La vuole finire? Io qui sto lavorando, lo capisce questo?”.

Non appena pronunciai quella frase, sentii il suono confuso di tanti oggetti appuntiti, scagliati sul pavimento con una virulenza immane per una donna. “Oh mamma, e adesso cosa sta facendo?”, riflettei.

“Lei non mi paura!”, le urlai. Non ottenni nessuna risposta, nemmeno una reazione di ritorno. Il telefono ricominciò a trillare, ma non risposi; ero veramente infuriato!

“Lei non spaventa nessuno con le sue minacce!”. Niente, l’unica risonanza in quel momento era il silenzio.

Mi spostai nel salotto, e ripetei quella frase. Disperato, con voce sempre più profonda, incisiva, determinata, pronunciai ancora la mia sentenza, e poi un’altra volta di seguito.

Il telefono non smetteva di suonare. Decisi dunque di rispondere, e alla stessa persona riportai la stessa motivazione, scusandomi timidamente e con vergogna per l’accaduto.

A quel punto, dei colpi di martello ben assestati cominciarono a riecheggiare in tutta la casa. A quel punto, la paura, unita al sudore sulla fronte e anche alla rabbia, presero il sopravvento. Ovunque io mi trovassi, lei da sopra mi inseguiva. Somigliava tanto a una competizione, o peggio a una battaglia.

Più io ribadivo: “Lei non mi spaventa!”, più ella batteva con maggior violenza.

Quei tonfi erano sopra la mia testa, dappertutto. Sembrava di trovarmi sotto a un campanile.

La mia gatta, sbigottita e impaurita, si diresse correndo verso la porta d’ingresso, e mi osservava con uno

sguardo che mi implorava di lasciarla scappare fuori.

La stessa cosa avrei voluto farla anch’io.

Ma chi era lei per commettere tutto questo?

 

Tutto d’un tratto, sopraggiunse nuovamente il silenzio. Aspettai cinque minuti. Tutto poi tacque. Forse quel momento di pura follia era veramente giunto al termine?

Mi ricollegai alla videoconferenza. Agitato, ansioso, procedetti con la lezione. Inutile descrivere l’orrenda

figuraccia che avevo fatto con quei clienti.

La serata trascorse invece tranquilla.

La mattina successiva, fortunatamente, non avevo lezione.

Verso le dieci, in un momento di pausa dal lavoro, aprii la porta dell’ingresso per agevolare un ricambio d’aria.

Mi esposi leggermente verso l’esterno. Le mie sorprese, anche in quel giorno, non erano finite.

Scaraventati qua e là per il mio ampio balcone al piano terra, vidi una moltitudine di insetti morti, di preciso delle cimici. Forse erano state gettate appositamente in maniera confusa, in ordine sparso, a scopo minatorio.

Un sapore acido mi attraversò lo stomaco fino alla gola. Alzai il viso e quello che vidi in quell’istante mi inorridii come non mai.

Feci appena in tempo a scorgere una mano mentre la ritirava, di poco oltre il davanzale della finestra della sua camera da letto, “colta in fragrante” a buttare quegli insetti verso il basso.

La donna calò dunque la tapparella fino a fine corsa, emettendo il solito fragore fastidioso. Non ebbi neanche il modo di replicare, o di reagire. Ero completamente sbigottito per ciò a cui avevo appena assistito. Non avevo parole, e comunque non avrei saputo nemmeno pronunciarle.

Infine, puntai lo sguardo verso la ringhiera, quasi senza volerlo. A quel punto, il mio sbalordimento raggiunse il suo apice. La parte centrale del cespuglio dei gelsomini, non ancora fioriti, appariva bruciata.

Tutto rinsecchito, a vederlo in quel modo credetti che su quella porzione di arbusto vi possa essere stato versato dell’acido, o chissà quale altra mistura.

Ma che cosa stava mai succedendo in quella casa? La situazione, già allarmante, si stava ulteriormente, pesantemente aggravando. Ormai era fuori controllo.

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