
La classe operaia va in paradiso – Italia 1971 – di Elio Petri
Drammatico – 116′
Scritto da Alessandro Pascale (fonte immagine: comingsoon.it)
Ludovico Massa, detto Lulù, è un uomo di 31 anni con due famiglie da mantenere ed è un operaio con alle spalle già 15 anni di fabbrica, due intossicazioni da vernice e un’ulcera. Sostenitore e stakanovista del lavoro a cottimo grazie al quale, lavorando a ritmi infernali, riesce a permettersi l’automobile e altri inutili beni di consumo, Lulù è amato dai padroni che lo utilizzano per stabilire i ritmi ottimali di produzione ma odiato dagli altri operai della fabbrica per il suo eccessivo servilismo. Tuttavia, non è contento della sua situazione, i ritmi di lavoro sono talmente sfiancanti che arrivato a casa riesce solo a mangiare e ad annichilirsi davanti alla televisione, nessuna vita sociale, nessun dialogo con i propri cari, non riesce neppure più ad avere rapporti con la compagna. La sua vita continua in questa totale alienazione, che lo porta a ignorare gli slogan urlati e scritti dagli studenti fuori dai cancelli, finché un giorno ha un incidente sul lavoro e perde un dito…
Il binomio Elio Petri–Gian Maria Volontè è sicuramente una delle cose più meravigliose che sia riuscito a regalarci il cinema italiano nella sua lunga e gloriosa storia: al pari dell’accoppiata Totò–De Filippo, o di quelle corazzate Fellini–Mastroianni, Tognazzi–Risi, Leone–Eastwood e più recentemente Orlando–Moretti e Servillo–Sorrentino. Il fatto che poi ci fosse un terzo incomodo di lusso come Ennio Morricone a immortalare musicalmente le capacità mimetiche e versatili dell’attore milanese e quelle stilistiche del grande regista romano è un valore aggiunto non da poco, che ha permesso ad una serie notevole di film come A ciascuno il suo, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La proprietà non è più un furto, Todo modo e il qui presente La classe operaia va in paradiso di passare alla storia conquistando tutta Europa.
Il filo conduttore comune a queste opere è l’impegno civile e politico di due intellettuali-operai, che misero la propria vita e il proprio lavoro al servizio di un ideale, pensando di poter cambiare la società anche partendo da una diversa concezione di cinema, portata ad analizzare e ritrarre i problemi reali della quotidianità. La strada scelta non è quella di un progetto pedagogico e didattico, bensì quella di rappresentare in maniera cruda e talvolta un tantino enfatica e iperbolizzata (o spettacolarizzata, adeguandola cioè alle necessità cinematografiche) le contraddizioni della società, lasciando allo spettatore il compito di trarre le conclusioni da opere senza dubbio schierate e di parte.
Chi ha una buona conoscenza del marxismo avrà colto la comunanza di metodo critico, con la necessità che successivamente all’analisi della società si risponda con una serie di proposte non piovute dall’alto, bensì formulate dal basso, dalla gente comune, riunita in assemblee e discussioni per deliberare assieme la soluzione migliore. È questo l’insegnamento esterno ed interno che troviamo in La classe operaia va in paradiso, dove l’attenzione dell’autore si concentra sulla figura dell’operaio Lulù Massa, che da stakanovista coccolato dai padroni assume coscienza della propria condizione di classe (e quindi di sfruttato) dopo aver perso un dito durante uno degli usuali massacranti turni di lavoro.
Alla rappresentazione esasperata (ma quanto mai reale) di certi meccanismi produttivi tipici del capitalismo industriale fordista (ad esempio i tecnici che calcolano il lavoro a cottimo cercando di guadagnare manciate di secondi per migliorare la produzione) fa seguito il processo di pazzia apparentemente irreversibile dello stesso Massa, esempio manualistico di quella che marxianamente viene detta “alienazione economica”. Il processo di “liberazione” dal lavoro assumerà le dimensioni di una presa critica più generale nei confronti di una società assurdamente fondata su uno sterile consumismo massificato di cui paradossalmente non riescono a godere nemmeno coloro che quella stessa società la rendono possibile, entrando al lavoro quando è ancora notte (l’alba) ed uscendo dal lavoro quando è già notte (sera).
“E questa è vita?!” è la sintesi di Massa fatta ad uno dei tanti consigli di fabbrica, assemblee spesso caotiche raggruppanti tutti gli operai che tendono a seguire quasi uniti i referenti costituiti dai delegati sindacali, fautori di una politica di rivendicazioni moderata e riformista (e per questo ritratti in maniera un po’ spregiativa dall’autore). Il loro contraltare è costituito dall’ala eversiva e rivoluzionaria della “nuova sinistra”, costituita da gruppetti dei movimenti studenteschi a loro modo realmente eversivi nelle rivendicazioni ma di fatto troppo distanti dalla possibilità di agganciarsi in maniera stabile e realistica al contesto in cui si trovano ad agire.
L’aspetto più forte e provocatorio del film è però la constatazione che l’alienazione porti alla degenerazione non solo fisica (Massa ha 31 anni ma ne dimostra assai di più, lavorando da 15 anni in fabbrica) ma soprattutto psicologica, portando non solo il protagonista a dare segnali di schizofrenia, ma anche all’impossibilità di stabilire normali relazioni familiari e di avere un sana vita sessuale. La vittoria finale (il reintegro al posto di lavoro per Massa, precedentemente licenziato per attività politica) è in realtà vissuta come una sconfitta dall’operaio, che dopo il florido periodo di inattività forzata (con il ritorno ad una qualche forma di stabilità mentale) vede sempre più concreta la possibilità di fare la fine del padre Militina (uno splendido Salvo Randone, nastro d’argento per il miglior attore non protagonista), vecchio compagno operaio che dopo essere stato licenziato fu rinchiuso in manicomio.
La classe operaia va in paradiso è quindi un lucido documento di un’epoca, una fotografia che resta tutt’oggi validissima per capire problemi mai passati di moda (anche se meno appariscenti). A Petri il merito di aver scritto anche soggetto e sceneggiatura (assieme a Ugo Pirro) e di aver portato avanti un progetto scomodo (giudicato tale da parte della stessa sinistra politica e sindacale italiana) con quel necessario spirito critico impegnato ed autonomo che Adorno riteneva indispensabile perché un’opera d’arte potesse essere definita tale. La scelta di una fotografia spesso cupa si accoppia alle grigie adunate mattiniere e serali delle masse di lavoratori, calati in un’ambiente invernale-infernale o in un capannone claustrofobico in cui l’unica tonalità di colore dominante è lo scuro delle lugubri macchine di lavorazione.
La luce come tale non si vede mai e dominano gli ambienti chiusi: l’alienazione domestica è resa da una continua penombra bluastra in cui la famiglia di Lulù guarda passivamente la televisione sconnettendosi dalla realtà. Le musiche di Morricone fanno la loro consueta bella figura, pur senza raggiungere i picchi di genio del precedente Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. In definitiva fioccarono i premi: Gran Prix di Cannes e David di Donatello per il miglior film, Nastro d’Argento per la migliore attrice protagonista a Mariangela Melato e soprattutto menzione speciale di Cannes per Gian Maria Volontè, protagonista assoluto della scena ed ennesima conferma per chi come il sottoscritto lo considera il vero grande eroe rivoluzionario cinematografico italiano.
Voto: 9
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