Angelo Barbiero, detto Gino, mio nonno nel “Paradiso sovietico”

Scritto da Francesco Carabelli

Leggendo La Prealpina nei giorni scorsi mi sono imbattuto in alcuni articoli sulla Campagna di Russia, o meglio sul ritrovamento di una piastrina di un militare italiano che partecipò a questa spedizione.

Anche mio nonno vi partecipò e fu tra i pochi a ritornare a casa, dopo lunghi anni di prigionia.

Se mio nonno Angelo Barbiero, detto Gino, non avesse avuto coraggio e pazienza, io oggi non sarei qui a raccontarvi questa storia. Se non avesse trovato delle persone che, nonostante venti anni di sovietizzazione forzata, avessero conservato la pietas cristiana e la fede, ma avessero messo in pratica sistematicamente gli ordini del partito, io non avrei potuto essere come sono in questo momento.

Sembra strano, ma non aver potuto conoscere qualcuno che è parte di te, nel tuo Dna, nonostante l’amore avuto nei tuoi confronti, educando tua madre e tua zia e avendo cura di tua nonna, è un peso che mi porto dentro.

E’ vero, è un male comune quello di aver perso qualcuno a cui siamo affezionati, ma non averlo neppure potuto conoscere è qualcosa che comunque lascia il segno. Certe volte mi chiedo di cosa avremmo parlato, cosa mi avrebbe potuto raccontare di persona di quegli eventi a cui ha dovuto partecipare, in quanto soldato inviato nella divisione Ravenna come furiere sul fronte russo nell’inverno del 1942, quando l’armata sovietica sfondò la linea italiana e degli alleati italiani e accerchiò le nostre truppe. Solo pochissimi riuscirono ad uscire da quella sacca e a tornare in Italia per raccontare l’accaduto. Tra questi mi piace ricordare lo scrittore brianzolo Eugenio Corti che, più volte candidato al premio Nobel per la letteratura, ha raccontato le gesta di quei fanti senza lesinare nei particolari in più libri, in primis ne Il cavallo rosso, opera monumentale che per una lettura attenta ha bisogno, a mio parere, di almeno un mese.

Purtroppo, le conseguenze della lunga prigionia dal 1942 al 1946, causarono a mio nonno una serie di problemi di salute legati alla cattiva alimentazione e al congelamento degli arti inferiori, con conseguente amputazione delle falangi di alcune delle dita dei piedi.

Queste condizioni precarie lo portarono a morire in giovane età, poco più che cinquantenne e a lasciare due figlie ancora giovani, una in particolare ancora bambina.

Oggi si muore di malattie, ma all’epoca molti morivano per i postumi della guerra, lasciando orfani e orfane e giovani vedove.

Ma mio nonno, una volta tornato in Italia, nel periodo in cui cercò di riprendersi dall’esperienza della prigionia soggiornando presso i suoi parenti in Veneto, mise per iscritto la testimonianza di ciò che gli era personalmente accaduto in un diario che intitolò “Paradiso sovietico”. Intento era quello di mettere in luce come quel mondo, fisicamente distante e culturalmente diverso, era tutt’altro dal paradiso in terra che voleva veicolare la propaganda sovietica durante i mesi di prigionia, tramite i rifugiati comunisti italiani che fungevano da agit prop, e comunque lontano da quella condizione di perfezione e piena felicità profetizzata da Marx e da tutti coloro che avevano poi ripreso e rielaborato il suo pensiero.

L’Unione sovietica era un paese che, nonostante il vanto di super potenza sullo scacchiere mondiale, mostrava povertà diffusa e arretratezza e, inoltre, ogni diritto dei cittadini, oltre che dei militari prigionieri, era schiacciato in ragione delle dottrine comuniste e di un fantomatico bene comune superiore.

I prigionieri venivano sottoposti a faticosissime marce nella neve, le famose marce del Davai, per raggiungere i centri logistici di smistamento ferroviario ed erano poi costretti a lunghi viaggi in carrozze bestiame adattate allo scopo, dove dovevano svolgere i loro bisogni fisici negli angoli e non ricevevano acqua o cibo. Venivano così sottoposti ad una prima selezione. Chi sopravviveva a questi spostamenti perché riusciva a dissetarsi con il ghiaccio che si formava sui chiodi di giunzione delle carrozze, era poi stoccato in veri e propri lager o campi di prigionia, nei quali era sottoposto a lunghe fatiche nei campi agricoli.

Molti erano coloro che morivano falcidiati da impietosi kapò sovietici, mentre lavoravano nei campi o mentre si spostavano dai lager ai campi con ogni condizione meteo possibile.

Mio nonno si dilunga parecchio sulla sua esperienza in questi campi nella Unione sovietica asiatica, oggi probabilmente parte delle repubbliche ex sovietiche come il Kirghizistan o il Kazakistan.

Lavorava nei campi di cotone, cotone che serviva per vestire i cittadini e i militari dello sterminato impero sovietico.

Ciò che emerge da questa lettura è una situazione in cui alla crudeltà di alcuni si contrappone comunque il rispetto di altri, in particolari delle popolazioni contadine, che vivono comunque le stesse difficoltà cui sono sottoposti i prigionieri. C’è quindi una solidarietà di fondo tra i prigionieri e il popolo russo di fede ortodossa che, comunque, ha rispetto di questi ospiti, per quanto sgraditi e prigionieri.

Solo al termine delle ostilità, dopo un anno, e vari spostamenti in treno dall’Asia alla Germania e poi, attraverso l’Austria e il Brennero, in Italia, mio nonno poté, nonostante le precarie condizioni fisiche, riabbracciare i suoi cari e tornare alla vita civile dopo quasi dieci anni di vita militare, lui che in quanto figlio di famiglia numerosa, avrebbe dovuto fare il soldato solo per sei mesi.

E così grazie alle sue parole scritte a macchina con una vecchia Olivetti, anche io posso conoscere la sua storia, nonostante lui non sia più qui a raccontarmela di persona. Ma posso interrogarmi con lui sul perché di tanta crudeltà.

Le sue conclusioni, a viaggio terminato, furono quelle di non voler mai più andare all’estero, dopo le estenuanti esperienze che aveva, volente o nolente, vissuto e che lo avevano segnato nello spirito e nel corpo, segnandone in qualche modo il destino. Solo la vicinanza ai suoi cari gli avrebbe ridato la voglia di vivere affidandosi al Signore, così come tante volte aveva fatto lontano da casa pregando sua madre, la Vergine Maria.

Il presente articolo è stato pubblicato in versione leggermente rivista il giorno 14 agosto 2021 sul quotidiano La prealpina

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