
Django – Italia/Spagna 1966 – di Sergio Corbucci
Azione/Western – 91′
Scritto da Alessandro Pascale (fonte immagine: Amazon.it)
In un paesino dimenticato da Dio, sulla frontiera fra Stati Uniti e Messico, dove si fronteggiano da tempo due gruppi armati irregolari, la setta razzista di incappucciati rossi comandati dal maggiore Jackson e i messicani rivoluzionari comandati dal generale Rodriguez, arriva Django, un reduce di guerra in cerca di vendetta per l’assassinio della moglie avvenuto in sua assenza.
Corbucci è rinomato per essere uno di quegli artigiani fondamentali del cinema italiano di una volta. Uno di quelli che pur non essendo in grado di rivaleggiare con i sacri maestri-autori del ventennio d’oro 60-70s rimase comunque uno dei più poliedrici e “spettacolari” registi in circolazione, spaziando con spudoratezza e semplicità da pellicole puramente comiche (I due marescialli per dirne uno a caso di quelli girati con Totò) a commedie dai tratti più grotteschi (Gli onorevoli, splendido ritratto di una generazione di politici), fino al filone spaghetti-western che tra la sua produzione di genere gli ha conferito una particolare celebrità, garantendogli un particolare posto nel cuori di cinefili accaniti come Quentin Tarantino.
Diciamolo subito: Django a rivederlo è invecchiato un po’ maluccio. Specie nel suo aspetto particolarmente crudo e violento che porta “addirittura” a scene di tagli di orecchie fatte mangiare al malcapitato di turno. Eppure mantiene notevoli elementi di fascino Django. A cominciare dal protagonista, Franco Nero, ispiratore dei più rinomati pistoleri futuri, dall’eminente Clint Eastwood al più pacioccone Terence Hill de noaltri. “Ford aveva John Wayne, Leone aveva Clint Eastwood, io ho Franco Nero” amava dire il nostro Corbucci riflettendo sulla benevolenza di un fato particolarmente spiritoso.
Eppure se c’è uno che pare calcato a pennello per il proprio ruolo questo è proprio Franco Nero, a suo agio fin dalle prime memorabili riprese che lo inquadrano mentre trascina una cassa da morto in mezzo al deserto. Una scena talmente famosa da essere diventata di diritto il motivo conduttore di un videogioco giapponese. Ci sono poi alcune scene davvero mirabili, come quando da solo Django ammazza un centinaio di uomini con la sua fidata mitragliatrice. Frotte di uomini mandate senza troppi pensieri dal creatore perché dalla parte sbagliata, senza troppi scrupoli di coscienza o possibilità di redenzione.
Perché l’elemento politico è forte, fortissimo: Django è un reduce di guerra che ha perso l’amore e di conseguenza la gioia di vivere. Però la voglia di giustizia gli è rimasta. Una giustizia animalesca, primordiale, nello stile della legge del taglione. Il nemico, tale maggiore Jackson, è il capo di una congrega vagamente razzista che paga con il sangue il suo odio per i messicani.
Non manca però una certa condanna bipartisan anche per la parte avversa, identificata nei messicani banditi-rivoluzionari guidati dal generale Rodriguez. Prima amici del “compagno” Django poi nemici in seguito ad una mancata ripartizione di un cospicuo bottino. Il contrappasso è consequenziale: non appena Django viene punito violentemente con la “distruzione” delle mani per aver disobbedito alla Legge Rivoluzionaria il gruppetto ribelle ottiene in cambio la morte. Chiaro il rifiuto estremistico di ogni eccesso di autoritarismo, seppur nell’ottica de “il fine giustifica i mezzi”.
Da notare poi come il colore rosso sia il simbolo distintivo degli uomini di Jackson. Se non c’è una polemica contro gli eccessi del mondo comunista dell’epoca allora ci sono davvero molte coincidenze anomale. Dal punto di vista tecnico poi la regia è eccellente. Visionaria la fotografia, mai banale né scontata la scelta delle inquadrature né tantomeno quella di atmosfere desertiche e un tantino lugubri. Forte il moralismo e la polemica femminista che si fa largo a sprazzi qua e là nelle vicende del bordello su cui ruotano gli eventi. Eccezionali i ritratti tamarrissimi dei vari personaggi, dai volti improponibili eppure proprio per questo affascinanti.
Spettacolarmente thrash poi il finale in cui un Django, pistolero divino con le mani completamente frantumate, riesce a far fuori da solo un manipolo di uomini venuti a eliminarlo. Sparando addirittura sette colpi di pistola con un’arma che ne può tenere solo sei. Il settimo forse è simbolicamente sparato dalla moglie sepolta nella tomba in cui Django si era simbolicamente asserragliato. O forse è solo un errore grossolano degli effetti sonori? Chissà, in fondo il cinema italiano di una volta era bello anche per questi dubbi di fondo che lasciava sulla sua professionalità.
Voto: 6
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