
Scritto da Francesco Carabelli
Non sono vecchio o almeno non mi sento tale. Ho poco più di 40 anni ma vedo un solco tra la mia generazione e i giovani di oggi, un solco di cui mi sono accorto da una decina di anni, quando ho varcato la soglia dei 30 anni e sono entrato, volente o nolente, nel mondo degli adulti, quasi contemporaneamente ad aver iniziato a lavorare con continuità.
Mi rendo conto di come i giovani di oggi siano molto pragmatici, ti dicono in faccia quello che pensano, ti danno del tu anche quando sarebbe più logico che ti portassero rispetto dandoti del lei, o almeno facendo finta per pura formalità. Sarà che i genitori fanno fatica ad educarli, sarà che i mezzi di informazione di massa veicolano una familiarità nelle relazioni che è tipica di un mondo anglosassone e che ci è stata esportata assieme ai prodotti culturali, e non, che vengono da oltreoceano e da oltremanica.
I giovani di oggi fanno fatica a credere in qualcosa. La secolarizzazione si è velocizzata terribilmente proprio grazie a internet e alla tv. Fanno fatica a capire concetti che per noi erano all’ordine del giorno, nel nostro vivere quotidiano in famiglia la vita di fede con la partecipazione alla parrocchia.
Forse, essendo le famiglie maggiormente disgregate di una volta, i padri e le madri non si occupano di curare questo aspetto della crescita dei figli. Facendo fatica i genitori a vivere la vita di comunità, lo fanno anche i figli, che non vedono più nell’oratorio una valvola di sfogo alla loro irruenza, un posto dove conoscere i loro coetanei e fare esperienze comuni.
Oggi tutto viaggia sulla rete. Il massimo che può essere concepito è quello di un gioco di gruppo online o altrimenti tutto è già organizzato dai genitori che portano il bimbo agli allenamenti di calcio, a quelli di basket o di pallavolo, nella speranza che il loro pargolo diventi una celebrità in campo sportivo.
Tutto deve avere disperatamente un’utilità, un fine immediati, per quanto futili. Non esiste la gratuità di dire: faccio una cosa per puro divertimento, perché mi piace, perché voglio semplicemente giocare con i miei coetanei. Viene meno il significato del gioco come strumento gratuito di crescita.
Parlando in questi giorni con un gruppo di amici del mio vecchio giro, concordavamo nel dire che i genitori riempiono la vita dei figli delle attività più disparate, ma non si accorgono che in questo modo tentano solo di non dare risposte alle domande fondamentali della loro esistenza; impegnati in questo e in quello, i loro figli non si accorgono del motivo per cui sono al mondo e non si pongono delle domande sul significato della loro esistenza.
A volte sembra di rileggere certi passi di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, come se fossero divenuti realtà.
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Molti ragazzi vivono con problemi psicologici, con problemi di integrazione con i loro coetanei, con le più disparate difficoltà di apprendimento alle quali si cerca di rispondere con terapie, ma senza andare al fondo del problema. Si danno palliativi, si evita di affrontare il mondo e la realtà con la giusta angoscia che deve essere tipica dell’adolescente, perché si ponga le domande fondamentali sulla sua esistenza.
Se propongo delle soluzioni tecniche e di comodo, dò comfort al giovane, gli evito delle fatiche, ma non lo faccio maturare e crescere. Tutto diventa facile, ma quando si troverà ad affrontare da solo la vita, crollerà sotto il peso delle prove che gli si presenteranno e inizierà ad odiare i falsi amici.
Diventerà cinico, non crederà in nulla di ciò che non va oltre ciò che gli si presenta di fronte (ob-jectum) e per il quale cercherà una causa scientifica, ma sarà incapace di guardare al soggetto, al sub-jectum, a ciò che sta sotto, o dietro le apparenze. In termini kantiani non considererà il noumeno, ma solo il fenomeno.
Ma se volessimo andare oltre, nel superamento di questo dualismo, il giovane si fermerà comunque a delle risposte tecniche, pragmatiche, che non prendono in considerazione il mondo dell’uomo, con i suoi valori i suoi credo e la sua libertà.
La cosa peggiore è che il mondo dei valori verrà deprezzato e verrà sostituito dal mondo delle leggi oggettive formulate in ragione di logiche di compromesso.
Mi accorgo che una certa ideologia ha imposto l’idea che una legge in quanto democraticamente varata è sempre giusta e oggi i giovani, o almeno una parte di essi, stentano a comprendere la differenza tra etica e diritto, tra morale e politica vivendo nell’illusione che basti il voto parlamentare o popolare per considerare giusta una legge.
Era questo uno dei problemi che ci ponevamo durante le lezioni di antropologia e filosofia morale all’università: fino a che punto basta il consenso popolare per far valere una legge e dirla giusta e dove entra in gioco invece qualcosa di altro e di più profondo? Basta inoltre un’etica formale kantiana per vivere o dobbiamo guardare ai contenuti?
Credo che negli ultimi anni la riflessione di filosofi come Roberta De Monticelli abbia aperto nuove strade in questo dibattito, privilegiando un aspetto contenutistico e meno formale, mettendo in luce i limiti di un’etica di impostazione kantiana (vedi il suo recente libro Al di qua del bene e del male, Einaudi, Torino 2015).
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Tutto questo per dire che a volte è meglio insegnare ai giovani a pensare e a riflettere magari con esercizi che possono sembrare non avere una utilità immediata, ma che aprono loro nuovi orizzonti e nuove prospettive.
Questo vale oggi in molti campi, ma sicuramente vale, in particolare, per il campo bioetico, dove ci troviamo di fronte ad una perdita di coscienza di molti giovani e molti giovani adulti che, in nome di concrete relazioni affettive e di un presunto diritto al piacere, sono molto spesso pronti a sacrificare la vita di un inaspettato nascituro, svalutandolo come un grumo di materia, in nome della propria libertà e dei loro presunti diritti di scelta acquisiti e inalienabili.
Certo, la differenza di opinione su tali temi è sicuramente costruttiva, ma partendo da presupposti un po’ più seri e meno frivoli.
Forse converrà tornare a rivalutare un’educazione agli affetti e alle relazioni che era uno dei punti fondamentali della catechesi per noi adolescenti degli anni ’80 e ’90.
Un mondo alla ricerca e alla difesa di sempre nuovi diritti, non si deve dimenticare dei doveri dell’uomo verso sé stesso e i suoi simili e il mondo stesso. Papa Benedetto XVI nei suoi ultimi scritti (La vera Europa. Identità e missione, Cantagalli, Siena, 2021) introduce l’interessante concetto di “ecologia dell’uomo”.
Riporto dalla agenzia Agi, relativamente a questo libro:
Il Papa Emerito auspica una sorta di movimento per ‘l’ecologia dell’uomo’ che protegga la ‘natura dell’uomo così come “il movimento ecologico ha scoperto il limite di quello che si può fare e ha riconosciuto che la “natura” stabilisce per noi una misura che non possiamo impunemente ignorare”.
Anche l’uomo possiede una “natura” che gli è stata data, e il violentarla o il negarla conduce all’autodistruzione – dice Ratzinger
Ci auspichiamo che questa idea avra´degli sviluppi interessanti in futuro.
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