
Armageddon time – Stati Uniti/Brasile 2022 – di James Gray
Drammatico – 115′
Scritto da Enrico Cehovin
Dopo essersi addentrato nel cuore dell’Amazzonia in cerca di una civiltà millenaria, dopo essersi spinto fino al limite del Sistema Solare per cercare se stesso, James Gray non poteva che guardare dentro di se, alle sue di origini, per trovare ancora una volta brillantemente la giusta strada, la sua strada.
Per scrivere Armageddon Time James Gray pesca nella sua autobiografia e racconta la storia di Paul, il figlio più giovane di una famiglia borghese del Queens, che nel 1980, alle soglie della presidenza Reagan, frequenta la scuola pubblica e si scontra ideologicamente e verbalmente con il sistema scolastico e i genitori. Complice la sua amicizia con un compagno di classe di colore osteggiata dagli adulti a lui vicini, si trova, più in generale, a fronteggiare già in tenera età l’immobilismo sociale e mentale che tutto e tutti permea intorno a lui.
James Gray riparte da un film più piccolo, che guarda sia al suo lungometraggio d’esordio, Little Odessa, da cui riprende la formula di un giovane protagonista immerso e frastornato in una New York multiculturale in cui è difficile orientarsi, sia a Two Lovers di cui è facile riconoscere un sistema familiare simile. Come per tutto il cinema di James Gray, anche questa è una storia di migranti, e la famiglia di Paul, provienente dall’Ucraina e di religione ebraica, ha già fatto i suoi conti con la discriminazione e la famiglia, oltreoceano, nella “terra dei sogni” è riuscita a ormai a guadagnarsi la sua fetta di mondo, la sua fetta di rispetto, la sua fetta d’America.
Paul è però un sognatore: ispirato da Kandinski sogna di diventare un artista, ma la sua creatività viene costantemente repressa a favore di ordini, disciplina e un solido futuro basato su una solida carriera; Topper, l’amico di Paul, sogna invece di fare l’astronauta, consapevole ma comunque speranzoso che ciò non gli venga precluso dal colore della sua pelle, in una fusione d’interessi e d’immaginazione che sfocia in un’evasione molto simile a quella proposta recentemente da Richard Linklater in Apollo 10½.
Ricorrendo al racconto di formazione e scegliendo di posizionarsi (anche con la camera) ad altezza bambino, Gray affronta di petto tematiche come l’odio raziale e il favoritismo, evidenziando le differenze e le disparità sociali e puntando il dito elementarmente ma tenacemente contro la pericolosa stagnazione politica e morale che permea il sistema americano, proprio come dovrebbe fare un bambino con carattere a sufficienza da opporsi a un sistema che non condivide.
Formalmente più semplice dei lavori precedenti del regista, l’8° lungometraggio di James Gray si distingue per la semplicità e sincerità di un grande regista che aveva bisogno di cambiare registro per raccontare qualcosa a lui caro, un regista in grado di concludere ed espirimere con un solo impeccabile conclusivo movimento di macchina la posizione che ha scelto di prendere in merito a tutta la vicenda.
Voto: 8
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