Camminando tra Brunello e Caidate

foto di Francesco Carabelli

Scritto da Francesco Carabelli

Proseguendo nel nostro percorso che abbiamo tracciato dalla Piana di Vegonno, siamo giunti nel nostro articolo precedente alla chiesa parrocchiale di Brunello.

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Di qui costeggiando la stessa possiamo dirigerci verso l’abitato e i campi di Caidate, una delle frazioni di cui si compone il comune di Sumirago: assieme appunto al capoluogo, vi sono inoltre Albusciago, Quinzano S. Pietro e Menzago.

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Per le informazioni che vi riporterò in queste poche righe devo ringraziare il sig. Carmelo Zordan, la sua famiglia e il loro amico signor Turri, che mi hanno accolto in quel di Caidate in un afoso sabato pomeriggio e mi hanno accompagnato alla scoperta di quel territorio, facendomene conoscere la storia e la geografia.

Un territorio ancora molto verdeggiante, ma che non è nulla al confronto di un vicino passato.

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Fino agli anni ’60 il territorio di Caidate era conosciuto a livello locale per le ampie coltivazioni di vite che permettevano di produrre del vino per il commercio, commercio gestito dal locale circolo e dal castello, cui afferiscono ancora oggi molti terreni agricoli della frazione.

Sul territorio ci sono molte cascine, fra le quali ho avuto modo di visitare la cascina Immacolata che si trova sulla strada detta di Campo che collega appunto Brunello a Caidate.

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E’ questa una cascina imponente, nata a metà Ottocento anche con funzione di coltivazione del baco da seta e tutt’oggi abitata e i cui abitanti sono attivi nelle coltivazioni dei campi ad essa contigui, in parte coltivati a mais o granturco e in parte a frumento di una varietà detta triticale, che è un incrocio tra grano duro e segale.

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Purtroppo, la stagione asciutta non è favorevole alla crescita dei cereali che risentono della poca acqua, anche perché non sono previste forme di innaffiamento artificiale.

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Questi campi sono punteggiati da dei casolari a due piani che in antico venivano utilizzati dai contadini che qui si facevano da mangiare e si scaldavano per non perdere del tempo prezioso nel loro lavoro, rimanendo quindi vicino ai campi anche durante la pausa per il pranzo.

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Ormai questi casolari sono fatiscenti per la maggior parte, ma ci parlano della storia del luogo, anche perché furono costruiti con materiali, sassi e leganti, reperibili sul posto e i tetti costruiti con legno di castagno dei boschi locali, come ben ha scritto il sig. Zordan in un suo articolo per la rivista Vita in campagna, articolo dedicato al recupero da lui effettuato pochi anni or sono di uno di questi casolari, che è vicino alla sua proprietà

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Nella sua proprietà il sig. Zordan, assieme ai figli e alla moglie, coltiva la vite e vari ortaggi, oltre al granturco da cui ricava farina per la polenta, con un piccolo mulino casalingo.

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Dicevamo della vite. Notoriamente la coltivazione per uso personale non è soggetta a quote e così è possibile coltivare la vite su piccole superfici. La famiglia Zordan ha fatto svolgere delle analisi sul suolo dei suoi terreni per trovare il vitigno più confacente con le caratteristiche chimiche del terreno e ha quindi impiantato del vitigno Nebbiolo di Valtellina, da cui ha prodotto uva di buona qualità da cui ricava già del buon vino, dopo sei anni di coltivazione.

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Protetta dalla rete antigrandine e con l’uso di tecniche come lo sfoltimento dopo l’invaiatura, ossia l’assunzione del colore rosso dei grappoli, la vite permette la produzione di un vino con un maggiore contenuto zuccherino delle uve, grazie alle fatiche dei proprietari e dei loro amici, che si danno una mano vicendevolmente nella coltivazione, scambiandosi pareri e tecniche tra loro.

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C’è chi, come il sig, Turri ha deciso di recuperare i vecchi vitigni di uva proibita, ossia quell’uva da cui non si può ricavare vino per il commercio, dato che la gradazione è bassa (sotto l’11%) e il contenuto di metanolo molto alto. Sarà possibile al più ricavare, con le tecniche adatte, delle grappe o usare le uve per il consumo domestico.

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Sono queste delle viti la cui coltivazione si diffuse sul finire del XIX secolo a causa della morte dei vitigni autoctoni dovuta alla fillossera, che intaccò non solo le foglie, ma anche le radici e i terreni, compromettendo la produzione di vino.

Solo l’introduzione della vite Clinton e della vite americana permise di riprendere la coltivazione perché queste varietà non venivano intaccate alle radici, ma solo sulle foglie. Tuttavia, il vino non era di qualità e molto spesso andava tagliato con vino proveniente dal sud Italia, come il Rionero o il Malvasia, uve queste che venivano commercializzate dai tanti circoli e cooperative di consumo che intrattenevano commerci con la Puglia e la Basilicata grazie a degli intermediari che si erano stabiliti al nord.

Ma oltre al vino, la cui produzione caratterizzava l´economia agricola di queste zone, c’era una forte coltivazione di cereali per il consumo umano, ma anche per il nutrimento degli animali.

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Fino agli anni ’60 era comune vedere nei vari paesi del circondario la machina da batt, ossia quella macchina che vagliava il grano permettendo di ricavare i chicchi che poi servivano alla produzione delle farine per panificazione e per le polente e in parte per la pasta, anche se allora la pasta era diffusa in poche varietà, soprattutto per le minestre e per i brodi e non tanto per la pasta asciutta che rimaneva un cibo estraneo alle nostra cultura enogastronomica, preferendo di gran lunga il riso e tutti i piatti che da esso si potevano ricavare, tra cui i risotti e le varie minestre a base di riso.

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Oggi i campi hanno lasciato spazio ai tanti boschi che si sono formati con una sempre maggiore incuria e con il venir meno generalizzato delle coltivazioni. Rimangono le strade e i muretti a secco che le delimitano e che ci permettono, passeggiando di poter godere ancora oggi di bellissimi panorami nel verde, di cui molto spesso dimentichiamo la storia e le fatiche delle nostre genti e di tutti coloro che sono venuti da lontano per trovare un futuro migliore per le loro famiglie, magari dopo aver affrontato lunghi viaggi e aver fatto esperienza in diverse regioni e con diverse coltivazioni, proprio come le famiglie che ho incontrato a Caidate e che mi hanno dato modo di conoscere meglio quel paese e di riflesso l’economia agricola delle nostre zone e un mondo che gradualmente va scomparendo con le sue storie e la sua saggezza.

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Sta a noi tramandare ai nostri figli e a tutti coloro che verranno dopo di noi il bello e il vero di quel mondo   contadino da cui siamo più o meno tutti originari, nonostante i grandi risultati industriali dell’ultimo secolo ce lo facciano spesso dimenticare.

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