Racconto di Francesco Carabelli
Stavo leggendo in lingua originale in questi ultimi giorni un libro di Jacques Chessex, libro mai tradotto in italiano, in cui lo scrittore romando ricorda il primo incontro con la ragazza che ispirò la figura femminile del suo romanzo L’orco, col quale vinse il premio Goncourt, massimo riconoscimento della letteratura di lingua francese.
Il libro in questione si intitola Dans la buée de ses yeux e si fonda sullo sguardo iniziale che diede il via al rapporto tra Jacques Chessex e Myriam Matossi, quello sguardo nei suoi intensi e bellissimi occhi grigi.
Quante volte da uno sguardo abbiamo fantasticato una relazione. Leggendo il libro dell’autore svizzero mi tornava alla memoria un lontano viaggio in treno da Milano a Gallarate. Una sera come tante di ritorno dall’università. Quella sera mi sedetti di fronte ad una ragazza che avrà avuto più o meno la mia età.
Dormiva profondamente, probabilmente stanca della giornata di studio e di lezioni a Milano. Era molto rilassata e felice. Nel sonno appariva quasi una presenza angelica in quel vagone. Iniziai a fantasticare una relazione con lei, il rivolgerle la parola, il conoscerla, il passare del tempo con lei. Avrei desiderato svegliarla per poterla guardare negli occhi, non avrei infatti potuto conoscerla in profondità se non incrociando il suo sguardo.
Probabilmente finse di dormire per evitare di intavolare un discorso con me, essendo probabilmente già impegnata con qualcuno o semplicemente non interessata.
Quante volte rimane il rammarico di non aver potuto conoscere qualcuno per essere arrivati tardi, per non entrare in conflitto con le scelte altrui, scelte che talvolta sono irrevocabili perché revocarle significherebbe mandare a monte un mondo costruito con anni di fatiche e basato sulla fiducia reciproca con il proprio partner, fiducia e stima che non si vuole rischiare di incrinare. A volte ciò vale anche prima di quella scelta definitiva per chi crede, che è il matrimonio.
Non si vuole rischiare di farsi venir dubbi, perché si è contenti della relazione con il nostro partner e nonostante gli sforzi dei nostri pretendenti diciamo di no, non vogliamo metterci in crisi, perché convinti che le nostre scelte, anche se non ancora definitive siano state fatte per il meglio, in vista di una vita assieme per la quale non vogliamo incrinature che possano perturbare la tranquillità del nostro futuro ménage matrimoniale.
E così si vive di rimpianti e rimorsi, di possibilità sbiadite o annientate ab origine per il nostro quieto vivere.
Rimane il ricordo di una simpatia, di una filia, di un comune sentire che però non è sbocciato in nulla, non ha portato a niente, se non a delle delusioni e al rammarico, al ricordo costante dei nostri errori e alle nostre aspirazioni soffocate dalla sabbia del tempo e dal perbenismo delle persone, che si nasconde dietro la cortesia dei loro modi, perché comunque appagate dalla loro vita, che hanno coscientemente scelto, non accorgendosi, o forse facendo finta, di non accorgersi dell’altro che hanno ferito per non avergli dato neanche una chance.
È molto meglio chi sparisce, chi cambia vita, chi si allontana, perché solo in questo modo permette all’altro di dimenticare, rende possibile al tempo e alla lontananza di suturare la ferita dell’anima della persona che aspirava ad amarla e che è rimasta scottata. La presenza continua della persona che ci ha rifiutato ci rende incapaci di cambiare, di guardare seriamente in una nuova direzione e di riorientarci.
Riflettevo come comunque il mettere per iscritto queste cose aiuti già in un certo qual modo a dimenticare. Si affida alla parola scritta il proprio vissuto per parteciparlo all’altro e per alleggerire il carico dei pensieri e dei problemi che ci turbano e non ci permettono di tornare a guardare la realtà così come è nel suo essere cristallina e tersa come un cielo estivo tra i monti della nostra infanzia, dove ritorniamo col pensiero e l’immaginazione cercando di evadere dalla routine di giorni sempre uguali e alla monotonia di una vita davanti al computer, presenza ormai costante e insuperabile delle nostre giornate.
La scrittura come farmaco delll’anima, recuperando la connotazione negativa di questo termine, messa in luce da Platone nel Fedro.
Affidando allo scritto ciò che prima era solo dialogo orale abbiamo salvato quei nostri pensieri per le future generazioni, abbiamo trovato un farmaco per tramandare ai posteri le nostre esperienze ed evitare che vadano perse e che coloro che leggono facciano i nostri stessi errori. Ma contemporaneamente abbiamo depotenziato il legame con chi narra perché ora dialoghiamo con un testo e non direttamente con il suo autore ed entra in gioco un modo diverso di interpretare che non può fare affidamento sul dialogo diretto con chi ha pensato quei concetti e vissuto quelle esperienze, che quindi si sgrava della responsabilità del dialogo orale.
La scrittura ci aiuterà a far memoria, ma ci dimenticheremo di quei fatti per quello che sono stati, la scrittura sarà una copia alla quale mancherà il rapporto diretto con la fonte e certamente anche l’autore dimenticherà col tempo il passato, avendo affidato al testo scritto l’onere di parlare al posto suo e troverà modo di varcare nuovi spazi e aprire nuove finestre sul mondo che lo circonda, insomma, di fare nuove esperienze.
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